La decadenza dell’elite

Corradino Mineo

La Democrazia Cristiana si è suicidata firmando gli accordi di Maastricht; il partito post comunista riteneva che bastasse cambiare il nome per ottenere il diritto di governare. Berlusconi fu la reazione vincente a questo doppio errore. Poi il tentativo di usare lo spauracchio di Berlusconi per imporre alleanze troppo ardite o semplificazioni forzate. Siamo ancora lì.
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La decadenza delle elites non è un guaio solo italiano. L’attuale classe dirigente israeliana nasconde la testa sotto la sabbia, ha paura della pace più della guerra. Angela Merkel non sa scegliere tra il sì all’Europa del suo mentore Elmut Kohl e il ritorno ad una visione pantedesca. E come non dar ragione a Giannelli (il vignettista del Corriere della Sera) quando mostra un Sarkozy con Berlusconi sulle spalle, e tutti e due che proiettano sul muro solo l’ombra sbiadita del generale De Gaulle. Le cose cambiano -è probabile- se si guarda ai Paesi emergenti, Cina, India, Brasile. Ma si può ben sostenere che l’Occidente tutto non sia immune dall’italica febbre, il deteriorarsi della grana di cui sono fatti i gruppi dirigenti. Fenomeno che non riguarda solo la politica. Basta chiedersi dove siano finiti i grandi pensatori della destra, i Mosca, i Pareto. E a sinistra, Gramsci, Gobetti? Non si vedono, nell’orizzonte contemporaneo, sindacalisti come Carniti e Trentin. Né presidenti di Confindustria che, come Agnelli, seppero depotenziare la tumultuosa contrattazione che seguì l’autunno caldo accettando un accordo che legava i salari all’aumento del costo della vita. Per non parlare dell’analisi della crisi economica: dov’è, oggi, un Federico Caffè? E, tuttavia, lo spettacolo offerto dalla politica in Italia è ancora più “deprimente”. Lo riconoscono, e solo in questo concordano, il Presidente della Camera Fini ed il Premier Berlusconi. Perché? Un primo motivo dello stato penoso delle cose della politica è la legge elettorale, approvata nel 2005, e definita “una porcata” persino dal proponente, il ministro leghista Calderoli. È l’unica legge in Europa che preveda lo sbarramento per bloccare l’accesso ai piccoli partiti, un premio di maggioranza per la coalizione vincente, l’elezione dei parlamentari su liste bloccate.

In più, sulla scheda compare l’indicazione del Premier, come marchio di fabbrica delle coalizione. Quel “per Berlusconi Presidente” ignora il dettato costituzionale che affida al Presidente della Repubblica l’indicazione del Primo Ministro e alle Camere la potestà di affidargli, con un voto di fiducia, la forza per governare. I profili di incostituzionalità, invero, sono diversi. Che dire di quell’autonomia del mandato parlamentare, evidentemente mortificata dal fatto che senatori e deputati vengono eletti solo in quanto il leader della loro coalizione ha concesso loro un posto sicuro in lista? Ma il punto che conviene, qui, sottolineare è come questa legge non abbia neppure garantito stabilità. Vediamo i fatti. Elezioni del 2006: il Centro Sinistra (per Prodi Presidente) vinse grazie a un’alleanza eterogenea che andava da Mastella a Rifondazione Comunista. Due anni dopo, la maggioranza implose. Anche Berlusconi aveva trattenuto con sé sia Fini, sia Casini. Con quest’ultimo litigò quasi subito. Vinse, tuttavia, le elezioni anticipate del 2008, grazie alla scelta del leader del Pd di andare al voto da solo (o quasi: accolse nelle liste Di Pietro e qualche Radicale, non i “comunisti”, né i verdi, né i socialisti). Vinse e ottenne, Berlusconi, grazie alla legge “porcata”, una larghissima maggioranza. Ma, due anni dopo, è arrivata, inevitabile, la rottura con Fini. E si torna a parlare di elezioni anticipate. La legge Calderoli avrebbe voluto imporre all’Italia non solo il bipolarismo, né il bipartitismo, ma un bi-leaderismo, una sorta di singolar tenzone tra Berlusconi e un anti Berlusconi, destinato alla sconfitta. Con quella legge, Berlusconi ha vinto, ma ora paga per la sua vittoria. Ha intorno a sé una strana corte, che gli deve tutto e gli dice sempre di sì, assecondandolo nei suoi errori e, spesso, inducendolo a sbagliare. Chiunque gli si erga davanti, in piedi, diventa un ostacolo da distruggere.

E, subito, uno stuolo compiacente si offre di farlo. E l’opposizione? Il racconto Berlusconiano del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica l’ha ridotta ad una summa di errori del passato: comunisti, democristiani, ex poteri forti, imprenditori e banchieri che in passato hanno goduto del favore della mano pubblica. Come è potuto accadere? Direi che la Democrazia Cristiana si è suicidata firmando gli accordi di Maastricht, che non avrebbero più permesso il generoso finanziamento del sistema politico a spese del debito pubblico; il partito post comunista ritenendo che bastasse cambiare il nome e liberarsi di una parte della base (ritenuta settaria) per ottenere il diritto di governare. All’inizio, Berlusconi fu la reazione vincente a questo doppio errore. Liberò un’Italia che era stata tenuta a bada dal bipolarismo Dc Pci. Un’Italia nostalgica del fascismo o insofferente dell’unità nazionale, infastidita dagli obblighi fiscali, convinta che fosse venuto il tempo di prendere a bastonate i magistrati indipendenti, chi voleva imporre regole per la sicurezza del lavoro, i sindacati e i grandi imprenditori che avevano scaricato sullo stato i costi del loro dialogo con questi ultimi. Un’Italia, forse, non bella. Certo, vera. Quando le sinistre la videro emergere, non pensarono che per un momento di poterla combattere e sconfiggere con la dialettica franca e aperta. Cominciò la corsa alle scorciatoie. L’anti berlusconismo di comodo ed il tentativo di usare lo spauracchio di Berlusconi per imporre alleanze troppo ardite o semplificazioni forzate. Siamo ancora lì.

Corradino Mineo
Giornalista, direttore di Rai_News

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