“I peccati della legge elettorale”

Non è una buona legge elettorale quella che offende le nostre tradizioni, il nostro abito civile. Come diceva il vecchio Montesquieu, le leggi dovrebbero rispecchiare la geografia dei popoli, il numero dei cittadini, perfino il clima.

L’appello per l’uninominale, firmato da intellettuali e da politici di ambedue gli schieramenti, ha il pregio di deporre sul tappeto un’idea concreta, in alternativa all’attuale legge elettorale. Però, attenzione: il sistema perfetto non esiste, anche se nessun sistema al mondo sarà mai peggio del Porcellum. E in secondo luogo alle nostre latitudini la ricerca della legge perfetta diventa sempre un alibi perfetto per lasciare tutto come prima. Si sa come vanno queste cose: tu metti insieme due partiti attorno a un tavolo, loro sputano fuori tre idee distinte e contrapposte. Salvo poi mettersi d’accordo se c’è da tirare uno sgambetto all’avversario, facendolo cadere un metro prima del traguardo. Nel 2005 la legge Calderoli è nata a questo scopo, per sabotare il trionfo annunciato del centrosinistra alle elezioni successive. In Italia nascono così pure le riforme costituzionali, da quella «federalista» dettata dal governo Amato nel 2001 alla «devolution» battezzata dal governo Berlusconi nel 2005, in entrambi i casi alla vigilia d’una prova elettorale. Insomma qui da noi la Grande Riforma è sempre un bottino di guerra, imposto col coltello fra i denti dalla maggioranza di turno all’opposizione di turno. Meglio non farsi illusioni. C’è però un esercizio cui possiamo dedicarci, mentre la politica affila i suoi coltelli. Possiamo elencare non tanto le virtù, quanto i peccati mortali della legge elettorale. Possiamo ripetere il verso di Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». E i peccati da cui dovremmo mondarci sono almeno quattro, come gli elementi del nostro pianeta. Primo, la terra. Quella italiana, che calpestiamo tutti i giorni.

Significa che non è una buona legge elettorale quella che offende le nostre tradizioni, il nostro abito civile. Come diceva il vecchio Montesquieu, le leggi dovrebbero rispecchiare la geografia dei popoli, il numero dei cittadini, perfino il clima. Sicché smettiamola d’almanaccare sui modelli stranieri, dividendoci fra tifoserie tedesche, francesi, americane. E siccome la nostra carta d’identità collettiva si conserva nella Costituzione, via il premio di maggioranza (340 deputati) senza una soglia minima per guadagnare il premio. Così com’è viola il principio costituzionale dell’eguaglianza del voto. E con la scomposizione del quadro politico, permette a una coalizione votata dal 30% del corpo elettorale d’accaparrarsi il 54% dei seggi in Parlamento. Accaparrandosi per giunta il presidente della Repubblica, quelli delle Camere, i giudici costituzionali. Secondo, il fuoco. Quello che dovrebbe divampare attorno ai santuari dei partiti, restituendo voce ai cittadini. Perché sta di fatto che il Porcellum ci ha tolto la possibilità di scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento. E perché non è affatto vero che anche in passato la scelta stava tutta nelle mani dei partiti. Con il Mattarellum le segreterie politiche sceglievano i candidati, non gli eletti. Se aggiungiamo l’obbligo d’indire le primarie su ogni candidatura, se sforbiciamo il numero di sottoscrizioni necessarie per presentarsi alle elezioni (alla Camera servono 4500 firme), forse s’aprirà una chance anche per i non addetti ai lavori. Terzo, l’aria.

Quella che respira l’eletto dev’essere la stessa che respira l’elettore. In questo senso l’uninominale recupera un rapporto fra i due perfetti sconosciuti inventati dalla legge Calderoli. Di più: recupera il sapore della sfida, uno contro uno. Poi vi si potrà affiancare una quota proporzionale, tagliare ogni collegio in lungo o in largo, plasmare il sistema secondo le nostre specifiche esigenze. D’altronde i collegi uninominali inglesi sono ben diversi da quelli tedeschi o francesi. L’importante è che i parlamentari rimangano ancorati al territorio, e che quest’ultimo non sia esteso quanto un continente. Come diceva, ancora, Montesquieu: una buona Repubblica deve riflettersi su un piccolo territorio. Quarto, l’acqua. Sorgente di vita, giacché in Italia avremmo quantomai bisogno di far sorgere una nuova classe dirigente. Quella che c’è è la stessa da vent’anni, e da vent’anni caracolla con il suo fagotto di promesse tradite, riforme mancate, progetti effimeri quanto un battito di ciglia. Ma almeno questo non dipende solamente dalla legge elettorale, benché la legge attuale santifichi la cooptazione come tecnica di trasmissione del potere. Dipende da noi, dalla voglia che ci rimane in corpo.

autorizzato da “La Stampa”

Michele Ainis
Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico – Università di Teramo

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