A proposito della crisi italiana

Tutti parlano di riforme. Nessuno ne studia la tecnica, i modi pratici di attuazione e gli eventuali effetti imprevisti. Trionfa il «politichese». Forse c’è più politica fuori che non dentro i palazzi della politica ufficiale. Gli intellettuali, d’altro canto, sembrano dei «separati in casa», rispetto ai problemi effettivi della comunità. Oppure accettano il ruolo di maggiordomi o di fini dicitori al servizio del potere.

Suona paradossale, ma le crisi fanno bene. Soprattutto in Italia. Nelle grandi sventure collettive – dalla caduta dell’Impero romano nel 476 d. C. all’8 settembre 1943 – gli Italiani sono meravigliosi. Nella prosperità risultano insopportabili. Nelle sventure riscoprono la fraternità primordiale, il nucleo familiare, la frugalità contadina, le grandi virtù della cultura mediterranea. Quando riescono ad esser prosperi, anche se permane l’incubo della disoccupazione e della miseria, la solidarietà familiare si corrompe in omertà mafiosa, il senso del prossimo si attenua fino a trasformarsi in quello del vicino di casa come nemico. Il sociale si rattrappisce.

La cultura si chiude in piccoli circoli e meschine consorterie. Non contano più la conoscenza, la preparazione e la competenza individuale dimostrata; contano le conoscenze personali, i legami più o meno occulti, gli amici ed i parenti e gli amici degli amici. Vince su tutto la paramafiosità di un ambiente asfittico, in cui non dovrebbe far meraviglia che vengano penalizzati soprattutto giovani e giovanissimi. La crisi di oggi ha radici antiche e molteplici. Chi non vive e non pensa in termini di pura cronaca, ma è portato a risalire dalla scheggia o dal frammento al significato globale, può anche consolarsi a buon mercato. La crisi fa soffrire. Ma squarcia, rompe la crosta del conformismo generale, rivela. Ha una funzione epifanica. È possibile ricordare la stanchezza intellettuale e la piattezza politica e morale del Seicento, dopo gli eroici furori creativi del Rinascimento. Nel Secondo dopoguerra, grosso modo dagli anni ’50 agli anni ’80, è lecito osservare che il mondo italiano, che era rurale, artigianale, statico, si è trasformato in una società industriale, tecnicamente progredita: un processo che ha richiesto, in Italia, poco più di una generazione, mentre è durato, in Inghilterra, poco meno di due secoli. Forse per questo le ragioni della crisi italiana, quelle profonde, che solo occasionalmente si materializzano in clamorosi episodi di cronaca, non sono le ragioni a cui, comunemente, ci si riferisce. Il fatto è che l’Italia odierna è una società industriale senza cultura industriale. Abbiamo i piedi nella linea di montaggio, usiamo i mezzi di comunicazione elettronici, ma la testa è ferma al «paese mio». Abbiamo tutti i segni, gli oggetti esterni della modernità; ce ne manca la sostanza.

Nessuna meraviglia che l’Italia di oggi, soprattutto al visitatore straniero anche simpatetico, sembri colpita da una blanda schizofrenia. Ne davo notizia, vent’anni fa, con un libro intitolato L’Italia in bilico – elettronica e borbonica (Laterza, 1990). In esso, ribadivo che l’Italia è un Paese moderno, ma la sua modernità è incompiuta. Troppe cose non funzionano. L’appuntamento e l’entrata in Europa non garantiscono un allineamento automatico. Eppure, l’Italia continua a progredire. Riprendendo una celebre metafora di Galbraith, si potrebbe dire che è come il calabrone: secondo le leggi dell’aerodinamica, il calabrone non potrebbe volare. Ma il calabrone vola. Vola basso, a piccoli sbalzi, da fiore a fiore. Ma vola. E vive. Vive di vita grama, senza progetto, senza prospettive. In effetti, mentre scompariva l’Unione Sovietica, crollava il Muro di Berlino, si riunificava la Germania, la prima Repubblica italiana, travolta da «tangentopoli», stentava a lasciare la scena ed a cedere il posto alla Seconda. Chiarivo le difficoltà della transizione in Il cadavere riluttante (Editori Riuniti, 1997).

Oggi, tuttavia, quando una forte maggioranza non riesce a governare e le discussioni intorno al processo detto «breve» fanno impallidire, quanto a lunghezza e inconclusività, le famose discussioni all’Università di Salamanca circa il sesso degli angeli, mi viene in mente che dovrei, di buona lena, buttar giù Il cadavere redivivo. Tutti parlano di riforme. Nessuno ne studia la tecnica, i modi pratici di attuazione e gli eventuali effetti imprevisti. Trionfa il «politichese». Forse c’è più politica fuori che non dentro i palazzi della politica ufficiale. Gli intellettuali, d’altro canto, sembrano dei «separati in casa», rispetto ai problemi effettivi della comunità. Oppure accettano il ruolo di maggiordomi o di fini dicitori al servizio del potere. Pesa su di essi il passato servile, all’ombra della Chiesa o sotto l’ala del Principe, dell’azienda, del sindacato, del partito. Hanno, in ogni caso, responsabilità massicce. Dare addosso ai politici è rapidamente divenuta una moda, in egual misura crudele ed inutile. L’oggetto di tanta attenzione risulta inerte, non più reattivo nel grado previsto, se mai lo sia stato. Lo si direbbe morto. Che continui a firmare, legiferare, sermoneggiare, sembra irrilevante: ritualismo; forza dell’abitudine o puramente d’inerzia, appunto, quando il politico è anche, si suppone, uomo di cultura (per esempio, ministro, deputato, senatore o, addirittura, segretario di Stato di una Superpotenza e, nel contempo, professore universitario) nessun dramma, nessun pathos alla Weber, nessun amletico oscillare fra le famose «due leggi» del rigore scientifico e dell’espediente opportunistico, della semplice verità e della menzogna strumentale. Basta un burocratico congedo.

Nei Paesi socialmente depressi, come l’Italia, non è neppure richiesta tale innocente formalità. Un salto all’Università di tanto in tanto, un paio di lezioni, qualche giornalista-fotografo compiacente, e la coscienza di questi centauri – per metà uomini e per metà cavalli – torna bellamente a posto, se pur non rischia la consacrazione del premio Nobel. In ambedue i casi, è da registrare solo uno stato di blanda, cronica, schizofrenia. Con riguardo all’Italia, c’è però qualche aggravante. Non c’è stato progresso. Siamo tornati indietro. Rispetto all’Italia odierna, quella pre-fascista era intellettualmente più viva. Se uno va a rileggersi le riviste di cultura dell’era giolittiana, si accorge subito che il clima era diverso, che l’immediatezza con cui ci si occupava dei problemi sociali e politici non aveva nulla di forzato, che il distacco, oggi, fra politica e cultura è più profondo. È una cesura. La stessa persona dimentica, quando fa politica, di essere anche intellettuale. E viceversa. La medioevale teoria della doppia verità è più applicata e vissuta nell’Italia clericale odierna che in quella liberale. C’è forse da meravigliarsi? È forse strano che sia così? O non dovrebbe semmai meravigliare il contrario? Però, a conti fatti, il risultato è chiaro: un passo avanti, due indietro. Due soltanto? La cultura italiana ha storicamente mostrato certe debolezze «interne», costitutive. Si potrebbero anche chiamare vizi d’origine, se la determinazione non suonasse pomposamente teologica e, nello stesso tempo, grossolanamente ereditaria.

Come dire: il peccato originale in simmetria con un residuo irrisolto delle «teorie» lombrosiane. Temo, in ogni caso, che non si tratti di caratteristiche occasionali. Riemergono così puntualmente, in contesti storici ed economici differenti, per esempio dal processo a Galileo alla «ripresa democratica» dopo la seconda guerra mondiale, che sembrano possedere la conturbante saldezza di quei tratti archetipici che si rifanno vivi ed acquistano un peso decisivo quando già si credeva fossero lontani nel tempo, legati ad una fase precedente, «superati». Questi tratti si riassumono, a mio parere, nella propensione della cultura italiana a non fare i conti con i problemi specifici della comunità in nome di «esigenze superiori». Per quanto boccaccesca e godereccia, è una cultura che si tocca continuamente l’anima. Non è solo l’evasione arcadica, la tendenza a sorvolare sul quotidiano per non offendere un certo gusto estetico. Né è soltanto il riflesso di un’eredità classica, probabilmente fraintesa o malintesa: il culto ciceroniano della forma, la riconosciuta superiorità della retorica, l’ideale dell’uomo come vir bonus dicendi peritus, che equivale ad un salvacondotto per Azzeccagarbugli. Questo ingrediente c’è ed è importante. Ma il disinteresse dell’uomo di cultura italiano per le questioni pratico-politiche del presente è così radicato che deve nascondere qualche cosa di più profondo. Copre probabilmente un segreto. È la maschera calata su un’angoscia che non può essere guardata, tanto è insopportabile. Analizzando più a fondo, il disinteresse si trasforma in terrore, smarrimento, insicurezza.

Quando l’intellettuale realizza qui la sua solitudine, cerca istintivamente e chiama il padrone, il superiore, il patrono. La dialettica servo-padrone, in Italia, non si è sviluppata pienamente fino al suo rovesciamento; non ci sono rendite autonome; è persino difficile giocare un padrone contro l’altro. Ci si può sfogare solo nella mormorazione o nell’anonimo. Gioacchino Belli, il fustigatore vitriolico di papi e cardinali, è impiegato e si guadagna il pane lavorando negli uffici della censura vaticana. La cultura italiana è ossessionata dalla consapevolezza della sua impotenza. Non ha alle spalle e non può contare su una borghesia con le carte in regola, «rivoluzionaria», laica e volterriana. Il capitalismo italiano resta essenzialmente un capitalismo dinastico, familistico, dipendente, «sussidiato». Mancano le rendite differenziate e forti che derivano dalle solide accumulazioni di capitale privato e che consentono agli uomini di cultura momenti di respiro, di utilitarismo non immediatistico, di pura spesa ed eccentricità, se non di totale autonomia, rispetto alle esigenze della sussistenza sotto la ferula del padre-padrone.

Il processo è ben visibile negli Stati Uniti a partire dalla guerra civile; in Inghilterra è già in atto dal Settecento con la costruzione dell’Impero coloniale e i frutti predatori che comporta; in Francia matura con le campagne napoleoniche, ma è già presente e rende possibile la grande rivoluzione. Si pensi, per qualche esempio rivelatore, alla Education of Henry Adams (se ne veda la bella traduzione italiana presso la Casa editrice Adelphi), ai viaggi d’istruzione in Africa, in Europa e nell’Oriente dei rampolli di queste famiglie (gli Adams, gli Harriman, i Vanderbilt, i Rockfeller, ecc.) che un secolo dopo possiedono ancora saldamente le redini del potere, e si consideri, del resto, tutto il turismo di alto livello dell’Ottocento, dalle Pietre di Venezia di Ruskin al romanzo d’amore con Firenze, alla scoperta di Fiascherino da parte di Shelley e Byron, per tacere degli errabondaggi poetico-sociologici dell’ex-minatore D. H. Lawrence, sposato alla rendita von Richthofen, dei quali Sea and Sardinia resta testimonianza insuperabile, così come la «scoperta» del Mezzogiorno aveva avuto, assai prima di Carlo Levi e degli stessi Sonnino, Franchetti, Fortunato, ecc., il suo pioniere nel Norman Douglas di Old Calabria (1915). Al confronto, la società italiana è una società senza margini: o si serve il potere o si è fuori, alla fame e al buio, dov’è pianto e stridor di denti. L’autonomia di giudizio qui deve ancora nascere. Persino l’eccentricità è sospetta. È un atto d’orgoglio che allarma i tecnici della regola, ne eccita il fervore inquisitorio. Si salvano le superstizioni, soprattutto quando siano radicate nella tradizione popolare. «La cosa è più che naturale – commenta Stendhal nelle Passeggiate romane (trad. it. Laterza, 1973, p. 92) – visto che qui tutti preferiscono studiare teologia, che apre tutte le carriere, anziché la scienza, che spesso porta in prigione». La durezza cogente del ragionamento scientifico, d’altro canto, viene respinta e rifiutata come rozza, se ne paventa il carattere tragico, si preferisce svicolare per i sentieri tortuosi del compromesso e della «distinzione». Si costruisce un’etica del «sì, però…». Hegel viene opportunamente riformato.

Alla dialettica degli opposti viene giudiziosamente affiancata una dialettica dei distinti. Al razionale si sostituisce il ragionevole. Trionfa il buonsenso. Si registrano fraintendimenti memorabili. «Per effetto della distinzione – scrive Carlo Antoni in Commento a Croce (Neri Pozza, 1956, p. 17) – la nostra civiltà rivela una fisionomia netta e costante di una sorprendente unità e coerenza. […] L’attitudine ad osservare con compiacenza l’abilità di chi, senza troppi scrupoli, sa conseguire il proprio piacere e vantaggio, l’attitudine, cioè, a distinguere l’intelligenza pratica dalla moralità, è la spregiudicata caratteristica della novella italiana e della commedia del Rinascimento […] È sempre la distinzione che consente al Castiglione di formulare le regole del perfetto cortigiano, vigenti su un piano della convenienza, sicchè da noi gli appelli anarchici alla nuda sincerità contro le cosiddette convenzioni sociali non hanno mai incontrato consenso alcuno». A quelle del Castiglione aggiungerei le regole della Dissimulazione onesta di Torquato Accetto. Nessun dubbio sulla positività di una siffatta concezione in quanto compensazione psicologica per intellettuali socialmente irrilevanti, politicamente subalterni e tradizionalmente esposti al rischio della persecuzione personale. Ma le conseguenze, dal punto di vista del significato degli uomini di cultura nella situazione storica e politica determinata e della loro capacità d’intervento, sono gravi. Comportano l’auto-annientamento storico di una cultura, non importa se accompagnato o meno dai garruli monologhi inconsapevolmente funebri di qualche spirito ritardatario.

Mi rendo conto che questa affermazione potrà apparire azzardata, troppo generale, o sweeping, per piacere a filologi toccati dalla grazia della «lettura lenta». Me ne scuso. Ma non vi rinuncio, tanto sono convinto che dietro le sconfitte e le mancate occasioni della cultura italiana non vi sia soltanto qualche disattenzione o un generico ritardo, bensì qualche cosa di fondamentalmente errato che ne paralizza le possibilità di sviluppo e rischia di vanificarla nel suo complesso: dalla cultura filosofica a quella storica e scientifica, dalla cultura più propriamente letteraria alla cultura politica. Il provincialismo, anche quello alla rovescia che consiste nel correre ansimanti dietro alle presunte novità forestiere, quali che siano, ed il carattere periferico della cultura italiana sono, in proposito, sintomi vistosi. Tutto questo non è solo un ritardo. Ha una funzione politica precisa. Il perdurante carattere «umanistico» della cultura italiana copre un orientamento sostanzialmente parolaio, genericamente retorico e di fatto conservatore della politica italiana, che nella realtà si traduce in un servizio prezioso reso ai gruppi economicamente dominanti. Nel generico grigiore, diviene difficile l’attribuzione di chiare responsabilità e sfuma la percezione netta degli interessi. È così spianata la strada al riformismo spicciolo «gattopardesco», che cambia qualche cosa per non cambiare niente e che, in ogni caso, spezza il progetto della trasformazione razionale della società in un’opera di pronto soccorso dettata e guidata dai buoni sentimenti, tanto inefficace quanto corruttrice.

La caduta nell’irrazionale diviene allora inevitabile. Esito familiare o, addirittura, messo in conto fin dall’inizio: una specie di ritorno all’ovile; un prezzo da pagare come corrispettivo della «sincerità», «spontaneità», «autenticità» – tutti valori visti e presentati come antitetici a quelli del calcolo razionale e dell’analisi scientifica. Ormai quarant’anni fa, Nicola Matteucci aveva eloquentemente denunciato questo pericolo (cfr. N. Matteucci, La cultura politica italiana fra l’insorgenza populistica e l’età delle riforme, Il Mulino, 207, gennaio-febbraio 1970, pp. 5-23). Nello stesso torno di tempo, in Una sociologia alternativa ne avevo parlato come del «nuovo spaccio della bestia trionfante». Peccato che Matteucci proceda e voglia andare avanti con la testa voltata all’indietro. La cura suggerita – di più massicce dosi di storicismo per rimediare alle insufficienze dello storicismo di maniera di destra e di sinistra – è un singolare trattamento omeopatico. Al limite, può ancora riuscire una fuga letteraria dalla sobria considerazione dei problemi del presente. Si rischia così di continuare a cercare, con l’innocenza e l’accanimento del signor Birotteau di Balzac, mezzogiorno alle quattordici. In questo senso, è difficile distinguere fra intellettuali, politici e «letterati della politica». Hanno caratteristiche fondamentali in comune: risolvono i problemi etici in atteggiamenti estetici, le questioni pratiche delle grandi maggioranze in perorazioni retoriche. Come altrove ho cercato di chiarire (Vita e morte di una classe dirigente, Roma, Edup, 2004), è una classe dirigente che mira a durare, non a dirigere. Una casta? Non proprio. Piuttosto, un caso di parassitismo costoso, che pesa, come sempre, sul «popolo che prega, paga e lavora». Fino a quando?

Franco Ferrarotti
Sociologo italiano e Professore emerito di Sociologia all’Università La Sapienza

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