La biologia sintetica

Allo scopo di evitare che il corpo (e l’identità) dell’uomo venga ridotto ad una fonte di profitto, occorrerebbe rivedere profondamente la disciplina del brevetto biotecnologico, rivalutando le indicazioni offerte dal Parlamento europeo.

luca mariniSecondo alcuni, dietro le prime, straordinarie applicazioni della biologia sintetica in campo ambientale, energetico e farmacologico, si celerebbe la volontà degli scienziati di creare nuove forme di vita umana, in una sorta di delirio di onnipotenza. L’annuncio della recente scoperta di Craig Venter ha provocato reazioni diverse e contrastanti nelle varie sedi di dibattito delle questioni bioetiche, biogiuridiche e biopolitiche. In Italia, dove la sensibilità bioetica è a senso unico verso il dibattito vita-morte (e dove altri temi, dalla terapia genica alle neuroscienze, sembrano ancora sconosciuti), l’annuncio ha finito per riproporre le abituali e sterili polemiche sul ruolo e sulle responsabilità della bioetica. Per l’ennesima volta, in questa materia, devo segnalare il tentativo di proporre una ricostruzione dei fatti fuorviante e strumentale, che ignora (o finge di ignorare) l’esistenza di un percorso tecno-scientifico ben più complesso ed articolato. Non c’è dubbio che i risultati raggiunti da Craig Venter possano condurre, in prospettiva, ad un radicale mutamento delle nostre convinzioni sulla vita e del nostro stesso modo di concepirla. Ma non siamo all’inizio dell’avventura; infatti, in questa stessa direzione, operano già da tempo, in convergenza tra loro, taluni settori di punta dell’innovazione tecnologica, costituiti dalle nanotecnologie, dalle neurotecnologie, dalle tecnologie della comunicazione e dalla robotica. Aggiungo, anzi, che le applicazioni sull’uomo della biologia sintetica acquistano, oggi, maggiore prevedibilità proprio grazie alle applicazioni delle converging technologies poc’anzi ricordate ed alle connesse sollecitazioni industriali e di mercato (la nuova “bioeconomia”): si pensi, solo per fare un esempio, alla produzione di materiale biologico sintetico destinato a sostituire cellule o tessuti umani colpiti da patologie incurabili. Paradossalmente, proprio in questa dimensione “bioeconomica”, e nella sua potenziale capacità di curare gravi malattie, risiede l’elemento più controverso della biologia sintetica, che secondo alcuni potrebbe mascherare vere e proprie forme di mercificazione del corpo umano.

Per sciogliere questi nodi è inutile sollevare questioni ideologiche e dogmatiche o evocare i fantasmi della bioetica di frontiera (lo “human enhancement” o “post-umano”); occorre, invece, individuare per tempo le mediazioni possibili sul piano politico-normativo che, in modo pragmatico-fattuale e non allarmistico-apocalittico, riducano al minimo il rischio della mercificazione. Se si va verso una mediazione politico-normativa, i risultati positivi si allargheranno a macchia d’olio. Si pensi alla natura essenzialmente tecnologica della biologia sintetica, che dovrebbe stimolare la bioetica a rivalutare il suo compito primario, che non è quello (come tutti dovrebbero sapere e, soprattutto, comunicare) di porre limiti alla ricerca, a meno di non voler rinunciare espressamente al progresso scientifico, ma quello di valutare sotto il profilo etico le applicazioni tecnologico-industriali dei risultati scientifici. Si tratta di un “salto” non facile, soprattutto in un Paese, come l’Italia, dove è sempre forte la tentazione di proporre al pubblico le problematiche bioetiche in funzione della loro valenza ideologica e della loro spendibilità politica e dove il dibattito bioetico tende ad appiattirsi sulle posizioni che, di volta in volta, appaiono (bio)politicamente dominanti: non a caso, nel nostro Paese, la bioetica si è da tempo avvitata sui temi di inizio-vita e fine-vita. Nella prospettiva indicata, ed allo scopo prioritario di salvaguardare esigenze generali come la salute e l’ambiente, andrebbero valorizzati quei principi del (bio)diritto internazionale e comunitario, come il principio di precauzione, che finora sono stati male applicati ed ancor peggio interpretati. Si pensi, ancora, al latente conflitto tra il divieto di mercificazione del corpo umano, sancito da numerosi strumenti giuridici internazionali e comunitari, e la disciplina dell’invenzione biotecnologica, fondata sul regime brevettuale. L’idoneità di tale regime nel settore delle biotecnologie ha sempre destato perplessità, anche sotto il profilo etico, soprattutto con riferimento alla brevettabilità delle sequenze genetiche umane. Con specifico riferimento alla disciplina comunitaria dell’invenzione biotecnologica, fondata sulla direttiva n. 98/44, il Parlamento europeo, fin dalla risoluzione concernente i brevetti relativi alle invenzioni biotecnologiche, adottata il 26 ottobre 2005, ha affermato che «la direttiva consente di brevettare il DNA umano solo in relazione ad una funzione, ma… non è chiaro se il campo di applicazione del brevetto si limiti solo a detta funzione o se possa estendersi ad altre funzioni» e che «la questione da esaminare è quella di stabilire se i brevetti di sequenze genetiche… debbano essere autorizzati secondo il modello classico della richiesta di brevetto, in virtù del quale il primo inventore può rivendicare un’invenzione che copre possibili impieghi futuri di tale sequenza, o se il brevetto vada ristretto in modo che possa essere rivendicato unicamente l’uso dichiarato nella richiesta di brevetto (tutela basata sugli scopi)».

Proprio allo scopo di evitare che il corpo (e l’identità) dell’uomo venga ridotto ad una fonte di profitto, occorrerebbe rivedere profondamente la disciplina del brevetto biotecnologico, rivalutando le indicazioni offerte dal Parlamento europeo nel quadro della c.d. tutela brevettuale basata sugli scopi e limitando il brevetto biotecnologico ad applicazioni concrete, chiaramente descritte nella domanda di concessione del brevetto. La mediazione politico-normativa cui ho accennato deve compiere un ulteriore sforzo verso la promozione di una cultura dell’informazione scientifica obiettiva e nel favorire, su un tema così nuovo, un effettivo dibattito pubblico (come imporrebbe la Convenzione di Oviedo sulla biomedicina, curiosamente non entrata in vigore in Italia), evitando di far riemergere, anche in questo campo, gli abituali (e collaudati) schieramenti della bioetica italiana: da una parte, chi lamenta il tentativo dell’uomo di manipolare tempi e tendenze della sua stessa evoluzione; dall’altra, chi sostiene la libertà di ricerca, anche a fronte di potenziali minacce all’integrità psico-fisica ed alla dignità dell’essere umano. E qui entra in discussione l’idoneità delle attuali sedi istituzionali della bioetica, nonché della loro composizione, a promuovere, incoraggiare e sostenere l’informazione scientifica. Ritengo, infatti, che sia giunto il momento di aprire la strada a nuovi organismi composti da tecnici ed in grado di esprimere pareri concreti e scientificamente documentati su questioni pratiche, lasciando ad altre sedi le questioni dogmatiche.

 

Il Comitato Nazionale per la Bioetica

Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) è stato istituito con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 28 marzo 1990.

Il Comitato svolge sia funzioni di consulenza presso il Governo, il Parlamento e le altre istituzioni, sia funzioni di informazione nei confronti dell’opinione pubblica sui problemi etici emergenti con il progredire delle ricerche e con le nuove applicazioni tecnologiche nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute.

Il Comitato esprime le proprie indicazioni attraverso pareri e mozioni che vengono pubblicati, non appena approvati, sul proprio sito. L’azione del CNB si svolge anche in un ambito sovra nazionale con regolari incontri con i Comitati etici europei e contatti internazionali.

Luca Marini
Professore Associato di Diritto Internazionale Università La Sapienza di Roma
Vice Presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica della Presidenza del Consiglio dei Ministri
Presidente del Centro di studi biogiuridici “ECSEL” (European Centre for Science, Ethics and Law)

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