L’ambiente dopo Copenaghen?

Cosa cambia per l’ambiente dopo la Conferenza di Copenaghen sul clima? Apparentemente poco.
Nonostante i frenetici incontri dell’ultima notte gli interessi nazionali hanno prevalso ed hanno impedito di arrivare ad individuare obiettivi vincolanti, anche se differenziati tra paesi sviluppati, paesi di recente industrializzazione e paesi poveri; gli impegni di riduzione sono solo volontari e su base nazionale. E anche l’altro grande terreno di trattativa, sui metodi di controllo e verifica delle riduzioni, è rinviato come le scadenze precise per la sottoscrizione di un trattato internazionale. Davvero troppo poco perché i cambiamenti climatici non si fermano e qualunque ritardo sarà sempre più difficile da colmare.
Eppure si può legittimamente sostenere che Copenaghen ha rappresentato una svolta. Non solo perché si è scongiurata una rottura completa delle trattative che avrebbe riportato la discussione indietro di 20 anni. Con la Conferenza di Copenaghen le questioni ambientali compiono un salto di scala. I cambiamenti climatici le proiettano al centro dell’agenda politica internazionale, come mai era successo nella storia. I capi di stato di 190 paesi, presenti al massimo livello, hanno confermato che i cambiamenti climatici rappresentano una emergenza mondiale. Tutti i più grandi Paesi, dal Brasile alla Cina, dall’India agli Usa, dall’Europa all’Australia, passando per il Sud Africa, hanno dei piani nazionali di riduzione delle emissioni (e questo fa ben sperare per il prosieguo delle trattative). C’è la consapevolezza che tale rischio coinvolge economie, relazioni internazionali, povertà e stili di vita e che solo una politica di cooperazione, che assuma l’interdipendenza come principio fondante, è in grado di dare la risposta giusta. Quello che manca è un accordo internazionale perché complessivamente queste emissioni siano sufficienti a impedire l’aumento di 2 gradi entro il 2050, come raccomandato dall’IPCC e unanimemente riconosciuto da tutti i paesi dell’ONU (al di là delle posizioni negazioniste espresse dal Parlamento italiano). Quello che è mancato è l’accordo su obiettivi e investimenti da raggiungere in tempi certi, a partire dal 2020, e la loro distribuzione tra paesi ricchi, paesi di nuova industrializzazione e paesi poveri. Quello che è emerso con chiarezza è che la vecchia concezione ottocentesca di sovranità nazionale non è in grado di affrontare il livello dei problemi che i cambiamenti climatici pongono, si tratta di mettere in campo una nuova idea di sovranità nazionale, capace di andare, su alcune questioni di interesse globale, oltre la ristrettezza dei confini nazionali, e anche su questo l’Europa ha qualche carta da giocare, vista la nuova realtà politico-istituzionale che sta cercando faticosamente di costruire. Copenaghen quindi rappresenta una battuta d’arresto ma segna anche un risultato positivo, attestato anche dalla straordinaria partecipazione della società civile: i grandi problemi ambientali entrano definitivamente nell’agenda economico-politica mondiale con la consapevolezza che servono nuove regole internazionali e strategie globali, ma anche forti e coraggiose politiche nazionali. Strategie per la difesa della biodiversità, che i cambiamenti climatici, in aggiunta all’azione dell’uomo, mettono sempre più in crisi, per le politiche dei trasporti aerei, per l’innovazione tecnologica, per contrastare il fenomeno dei profughi ambientali provocato da inondazioni, desertificazioni, carestie e che per quantità da qualche tempo hanno superato i profughi da guerra. Nelle politiche nazionali la rilevanza è ancora più evidente. Basti pensare che in Europa, e quindi in Italia, la possibilità concreta di ridurre le emissioni di CO2 passa attraverso interventi forti e decisivi almeno in quattro grandi settori: la produzione di energia, il sistema dei trasporti, l’edilizia residenziale e l’efficienza energetica nel sistema produttivo. Tutti settori che coinvolgono molteplici aspetti della vita quotidiana, dal modello di produzione energetica diffuso sul territorio e non più centralizzato alla riqualificazione del patrimonio edilizio, dalla raccolta e riciclo dei rifiuti agli stili di vita dei singoli cittadini, dalla vita dei pendolari e dalla mobilità urbana all’organizzazione della città e del lavoro. Tutti settori dove l’innovazione tecnologica, la ricerca, la consapevolezza dei cittadini e la volontà politica degli amministratori si dovrebbero intrecciare per andare verso un modello socio-economico profondamente modificato. Si tratta infatti di passare da un mondo polarizzato tra società fortemente energivore e società dove manca l’essenziale per sopravvivere, ad un mondo dove un’economia a basse emissioni di CO2 vuol dire energia distribuita ed accessibile a tutti e quindi benessere maggiore e più diffuso, con minor consumo di risorse.
Serve coraggio politico, perché ci sono posizioni monopolistiche e ragnatele culturali da sciogliere, ma è una straordinaria occasione per muovere un cambiamento che può aiutarci a uscire dalla crisi e guardare con più ottimismo al futuro.

Vittorio Cogliati Dezza
Presidente nazionale
Legambiente

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