L’incognita del futuro

Non c’è campo della medicina più promettente di quello delle cellule staminali.
Ma mai, in medicina, ci sono state più delusioni. I lavori più entusiasmanti di cellule che si trasformano in altre cellule, quasi mai vengono confermati da altri studi.

Forse, un giorno, le cellule staminali serviranno per curare diabete, Alzheimer, Parkinson, lesioni del midollo spinale, malattie rare e, chissà, riparare danni a cuore, reni, fegato. Ma cosa si può curare, già oggi, con le cellule staminali? Due cose: le malattie del sangue e certe malattie rare del sistema immune, le immunodeficienze primitive soprattutto. Questo si fa a Milano. Poi, si possono riparare pelle e cornea. In Italia lo fa Michele De Luca a Modena. Presto, lui e i suoi collaboratori sapranno rimediare anche alle lesioni della mucosa dell’uretra e a quella del cavo orale. E c’è chi lavora per riparare il cuore dopo l’infarto in Germania, Inghilterra, Francia, Italia, Stati Uniti e Giappone. I risultati, finora, sono però deludenti. Per le altre malattie, in Europa e negli Stati Uniti, con le cellule si fa soprattutto ricerca, non per curare adesso, ma per capire (quali cellule usare e per quali malattie, quanto pure e quante devono essere, dove le si deve mettere). Si tratta anche di stabilire se questi trattamenti siano abbastanza sicuri – safety dicono gli anglosassoni – da poter diventare una cura. Progetti così ce ne sono tanti.

Per la sclerosi multipla, ad esempio, lo stanno facendo a Chicago – hanno pubblicato un lavoro nel Lancet di qualche mese fa – e a Louisville. Per la sclerosi laterale amiotrofica, è già stato avviato uno studio in Spagna che impiega cellule del midollo osseo. Altri gruppi, anche in Italia, hanno condotto esperimenti preliminari, o si preparano a farlo. A Londra, all’Imperial College, c’è uno studio con le cellule staminali per le fratture della tibia. A Basilea ce n’è uno per curare le piaghe da decubito e negli Stati Uniti l’FDA sta per approvare uno studio con cellule embrionali umane per i danni del midollo spinale. Bambini con distrofia muscolare sono già stati trattati con cellule staminali in studi preliminari a Milano. In Europa e negli Stati Uniti, gli ammalati devono essere informati di tutti i dettagli del protocollo e del fatto che, per adesso, questi studi servono solo per capire. Di efficacia se ne parlerà dopo. Nessuno può però impedire agli ammalati di andare all’estero, a farsi curare dove non ci sono regole. Lo chiamano “turismo delle cellule”: di solito, si tratta di medici che lavorano in Paesi emergenti, o addirittura poveri, dove la ricerca clinica non ha vincoli e si può fare più o meno quello che si vuole senza aspettare i risultati degli studi eseguiti con criteri scientifici.

Roberto Brenes lavora in una clinica di San Jose, Costarica. Lui e i suoi colleghi hanno trattato quasi 70 ammalati con sclerosi multipla con cellule staminali estratte dal tessuto adiposo. Gli ammalati spendono fra 15.000 e 25.000 dollari ogni volta. E i risultati? Buoni, a detta di Brenes. Cita spesso il caso di un ammalato del Tennessee, il quale, dopo due mesi di cura, ha potuto lasciare la sedia a rotelle e stare in piedi per un po’. Aveva svolto anche tanta fisioterapia. I medici del “turismo delle cellule” ragionano così: “Per avere risultati da studi clinici fatti a regola d’arte – sclerosi multipla, tanto per fare un esempio – ci vorranno 10-15 anni. Ma da me vengono malati che vogliono guarire adesso e mi chiedono di fare tutto quello che si può. E allora, perché non provare?” Mentre in qualche paese dell’Europa – soprattutto in Italia – si discute se le cellule debbano essere embrionali o adulte, in Asia, le cliniche che promettono miracoli con le cellule – scrivono Kiatpongsan e Sipp su Science – sono sempre di più.

Forse è venuto il momento che anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Comunità Europea ed il governo degli Stati Uniti assumano una posizione chiara perché la gente sappia quali malattie si possono davvero curare oggi con le cellule e per quali, invece, esistono prospettive interessanti, ma niente che possa curare o guarire. Lo si deve fare subito per evitare il fai-da-te. Si rischia che effetti negativi, anche gravi, e frodi finiscano per offuscare le grandi potenzialità di questi trattamenti. Anche gli ammalati devono fare la loro parte, ma bisogna spiegare loro per bene come stanno le cose. Oggi, con le cellule, per riparare organi e tessuti e curare la sclerosi multipla, o le lesioni del midollo spinale, siamo al punto in cui si era quarant’anni fa col trapianto di midollo per la leucemia. Per quanto avanzatissime, queste ricerche sono “in fasce” rispetto alle loro potenzialità. Hanno bisogno di essere protette, proprio come si fa con un bambino appena nato. Non c’è campo della medicina più promettente di quello delle cellule staminali. Ma mai, in medicina, ci sono state più delusioni. I lavori più entusiasmanti di cellule che si trasformano in altre cellule, quasi mai vengono confermati da altri studi.

Per esempio, non è vero che le cellule del midollo si trasformano in cellule del cuore. È vero che si possono trapiantare nel cuore, ma durano poco. Sono cellule del sangue, e restano cellule del sangue anche quando le si mette nel cuore. In qualche caso, ma davvero di rado, si fondono con cellule del cuore. È solo un esempio per dire che questo campo della medicina, così avanti, ma così complicato, ha bisogno ancora di tanti, tantissimi studi. Per fortuna, i ricercatori non si fermano. Le cellule staminali, più che riparare lesioni, potrebbero essere il modo di trasportare i geni dove servono. O per rifornire l’organismo di una proteina che manca. È il caso dell’emofilia. Lì si è visto che cellule e geni possono guarire. Succederà per altre malattie. Ma non sarà subito. Esiste un’altra notizia: topi con una grave forma di anemia guariscono con le loro stesse cellule modificate in laboratorio.

Questi esperimenti sono stati possibili grazie agli studi di uno scienziato giapponese, Shinya Yamanaka. Lui ed i suoi collaboratori avevano ottenuto cellule embrionali a partire da cellule adulte già da qualche tempo, nel topo. Poi l’hanno fatto nell’uomo. Scienziati di Boston e di Birmingham, in Alabama, hanno modificato, con la tecnica di Yamanaka, alcune cellule della cute di topi malati di una forma di anemia che assomiglia alla talassemia dell’uomo. A queste cellule hanno sostituito il pezzo di DNA malato con DNA normale e le hanno guidate verso il midollo osseo con un altro trasferimento di geni. Il midollo si è ripopolato con cellule normali ed è stato capace di produrre globuli rossi normali. Così gli animali sono guariti. È davvero un risultato importante. Fa sperare che un giorno si possa guarire la talassemia dell’uomo. Aver imparato a riportare le cellule adulte allo stato embrionale consentirà di creare in laboratorio i 220 tipi di cellule del nostro corpo, incluse quelle del cuore, del cervello, del sangue, del fegato. Questo servirà a riparare organi e tessuti, fra l’altro senza rigetto perché la cellula adulta da cui si parte proviene dalla pelle dello stesso ammalato che si deve curare.

I Giapponesi hanno avuto però bisogno di trasferire i geni che servono a riprogrammare le cellule adulte migliaia di volte per averne una che li esprimesse. È chiaro che un’attività così, per ora, non ha nessuna probabilità di essere usata in clinica. Ian Wilmut, che ha clonato Dolly, avrebbe dichiarato al Daily Telegraph che questi studi rendono obsolete le ricerche sul trasferimento nucleare. Ma abbandonare queste ricerche sarebbe un errore. Adesso, studiare gli embrioni è più importante che mai. Perché un giorno si possano davvero curare malattie con questa tecnica, prima si dovrà capire se le cellule embrionali che derivano da quelle adulte funzionano davvero come cellule embrionali. Per quanto sono capaci di rimanere in uno stato pluripotente.

Come si fa ad orientarle verso il tessuto o gli organi che ci interessa riparare. Fino ad allora – scrive il Lancet – la ricerca sulle cellule embrionali deve continuare. E non basta ancora. Negli ultimi anni, diversi studi hanno dimostrato che nel cuore, nel rene, nel fegato, persino nel cervello, ci sono cellule staminali. Forse sono lì proprio per riparare i danni qualora servisse. Nel cuore, per esempio, già qualche anno fa Piero Anversa – che lavora a New York – ha visto che ci sono cellule staminali capaci di rinnovarsi. Sanno dar vita a cellule muscolari e cellule endoteliali. Se uno le inietta nel cuore di animali con l’infarto, queste cellule riparano il danno. Studi di Mario Negri e di ricercatori diversi di Firenze hanno dimostrato che anche nel rene ci sono cellule staminali. E queste cellule sanno riparare i danni. Il fenomeno è ancor più evidente se si utilizzano ACE inibitori, farmaci che normalmente servono per abbassare la pressione.

L’impiego di ACE inibitori in animali da esperimento con diverse malattie renali consente al tessuto ammalato di rigenerarsi. Si formano nuovi capillari. Ma se gli organi possiedono tutto ciò che serve per rigenerarsi, che senso ha tutta la ricerca che si sta facendo sulle cellule staminali idonee a riparare organi e tessuti? E le discussioni se debbano essere staminali adulte, o fetali, o embrionali? Nessuno può escludere che, fra qualche anno, ci si renda conto che la strada per guarire le malattie non è quella di prendere cellule staminali e iniettarle lì dove ci sono danni, ma di favorire la capacità che hanno i nostri organi a rigenerarsi da soli. C’è formazione di nuove cellule nervose perfino nel cervello (sono cellule che cominciano a moltiplicarsi man mano che altre, danneggiate, vengono eliminate) e in regioni speciali come il bulbo olfattivo e l’ippocampo, la zona della memoria. Ed è straordinario pensare che proprio lì, quando serve, si possano formare nuovi neuroni, e che possa succedere anche nell’adulto. Mobilizzare le cellule staminali che ci sono già nel rene, nel cuore, nel fegato è possibile. E mentre filosofi e bioetici discutono su quello che si può o che non si può fare, chissà che non siano ancora gli scienziati a trovare soluzioni che evitino l’impiego di cellule embrionali.

Giuseppe Remuzzi
Direttore della Divisione di Nefrologia e Dialisi degli Ospedali Riuniti di Bergamo

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