Gradacac, un’esperienza all’inferno

Non si possono capire le cose che ci circondano se non le viviamo condividendo le esperienze con le persone più deboli.

C’era una volta la Jugoslavia, per troppi di noi una una curiosa terra senza storia che cessava di esistere a pochi chilometri dalla costa. Anni fa (decenni, secoli, per le nostre intorpidite coscienze), in quella terra si è svolta una guerra feroce e sanguinosa, che ha dissolto in pochi anni una nazione felice. Questa aveva come principio costituzionale fondante edinstvo i bratsvo, unità e fratellanza. La guerra ha lasciato un coacervo di staterelli poverissimi e frammentati, che hanno come unico principio unificatore l’egoismo etnico e l’odio reciproco.

Vorrei qui provare a raccontare un’esperienza fatta con un gruppo di “Beati i costruttori di pace”, in una città martire della Bosnia e Erzegovina (BiH), forse la repubblica in cui più feroce è stata la guerra. Si tratta di Gradacac, posta all’estremo nord nel cantone di Tuzla, a contatto col cosiddetto corridoio di Brcko. La linea del fronte passava a due chilometri dal centro della città, ed essa è stata quotidianamente bombardata dal 28 maggio 1992, giorno in cui qui iniziò la guerra, sino praticamente alla pace di Dayton, nel novembre 1995, con una breve tregua all’inizio di luglio 1995. Normalmente, sulla città cadevano dalle 5 alle 15 granate al giorno di media; nei giorni di bombardamenti più pesanti abbiamo contato oltre 10.000 granate.

Si osservi: il 25 maggio 2002 (primo giorno del piccolo Bajram, grande festa musulmana), tutti i circa 10.000 serbi di Gradacac abbandonarono la città. Nessuno ne aveva fatto parola con croati o musulmani, il fidanzato non l’aveva detto alla fidanzata, il compagno di banco al compagno, in molti casi il marito alla moglie. Al crepuscolo, e fino a notte fonda, Musulmani e Croati videro formarsi una lunga colonna di auto, diretta a nord, che portò via senza una parola di spiegazione un quinto della popolazione. I rimasti seppero che stava per accadere qualcosa. Dovettero attendere solo tre giorni, poi furono tre anni e mezzo di inferno.

Complessivamente, la città di 56.000 abitanti prima della guerra, ha visto 5.000 morti tra militari e civili (due categorie largamente coincidenti); il numero di bambini orfani di entrambi i genitori è stato di circa 1.000; sulla città si sono riversati circa 16.000 profughi, bisognosi di tutto, soprattutto dalle aree immediatamente a nord (Modrica, Brcko, etc.). Dopo gli orrendi fatti di Srebrenica, del luglio 2005, sono giunti altri 3.000 profughi. Due terzi della popolazione residente ha vissuto nel corso della guerra esclusivamente di aiuti umanitari. All’inizio della guerra, la città, a larga maggioranza musulmana (oggi si preferisce dire bosniacchi, indicazione di gruppo etnico e non necessariamente di fede religiosa), aveva una percentuale di serbi del 20% ed una di croati del 12%. Oggi, queste due minoranze si sono ridotte a poche centinaia di presenze, anche se nel corso della guerra non vi sono stati problemi interetnici sostanziali. Molto ridotto è stato anche il ritorno dei profughi, specie serbi.

Non ho qui lo spazio anche solo per tentare di spiegare qual è la situazione su cui si è innestata questa guerra, che da subito è apparsa così assurda e così sconvolgentemente e immotivatamente feroce. Anche perché le informazioni che possono aiutare a costruire un giudizio andrebbero filtrate alla luce di un’analisi politica, inevitabile quando si vogliano analizzare le storie del mondo slavo-meridionale. Mondo in cui le ricostruzioni storiche, largamente mitiche, ma anche i dati di fatto (censimenti fino persino ai dati geografici) sono largamente soggetti a distorsione e a filtraggi ideologici. Il lettore italiano non sapeva sostanzialmente nulla di quanto avveniva ai propri confini e nel corso della guerra (e dopo) è stato sommerso da un diluvio di disinformazione.

Più importante è forse spiegare che senso ha avuto un’esperienza di volontariato in Bosnia, attività che ho iniziato nel settembre del 1993 e che dal maggio 1994 alla fine della guerra mi ha visto per la maggior parte del tempo a Gradacac con un piccolo gruppo di volontari. Non è facile. Si fondono motivi personali (grazie al Cielo, siamo persone!) e impegno etico-politico, in una continua elaborazione dell’esperienza a contatto con persone che hanno storie personali e visioni di vita anche largamente diverse.

Vorrei cominciare parlando dell’inferno. Ma come si può descrivere l’inferno?, si chiedeva Etty Hillesum dal lager di Worterbork, nel settembre del 1943. L’inferno della Bosnia non è stato (non è stato solo) il sangue, la violenza, i pezzi dei bambini che coglievano ciliegie su un albero e che una granata ha straziato. È un dolore ottuso, che crea un deserto di sentimenti e riduce la convivenza, anche dove dà prova di solidarietà, ad un livello di povertà e desolazione affettiva e culturale impensabile. È l’inferno di Adnan, disabile mentale grave, torturato a Prijedor con gli altri ricoverati di un’istituto. Perché musulmano.

Torturato non da miliziani, ma dall’esercito della Republika srpska, in un piano politico di distruzione psicologica della popolazione civile musulmana. Di Rasema, che si prostituiva per due chili di farina. Dei bambini di Mostar. Di Senad, a cui procurarono decine di microfratture alle gambe, prendendolo piano piano a calci per una settimana di seguito, a Srebrenica. L’inferno di chi ruba perché ha bisogno e di chi ruba senza avere bisogno. Di chi viene privato di diritti elementari, dalla scuola al gioco al cibo, come i bambini. O delle donne, costrette di nuovo ad una condizione servile intollerabile.

Come sono capitato all’inferno? E chi sono i “Beati”? La storia del movimento è relativamente semplice, dall’appello del 1986 con questo titolo, alla trasformazione del movimento in associazione nel 1990, all’impegno in Jugoslavia. Più difficile è spiegare perché con mia moglie Gabriella, tutt’altro che giovani, ci siamo impegnati in questa vicenda. Il primo impegno ha riguardato Stobrec, l’assistenza al “Convoy of Joy”. Si tratta di un grande convoglio umanitario musulmano, rimasto bloccato immotivatamente presso Spalato per circa sei mesi e soggetto a innumerevoli angherie da parte della polizia militare croata.

Con un gruppo di Beati, ponendoci come forza di interposizione non violenta tra la polizia ed il convoglio, abbiamo imparato, vivendolo direttamente, il senso di quelli che sono due principi guida del movimento: condivisione e diplomazia popolare. Non si possono capire le cose che ci avvengono attorno se non le viviamo condividendo completamente la vita dei più deboli, delle vittime più umiliate e angariate, guardando il mondo con i loro occhi. E non sono i governi che regolano i rapporti veri tra le genti: eravamo più importanti noi, diplomatici del popolo, che parlavamo direttamente alla gente. Più importanti dei nostri diplomatici e governanti, a volte miserabili, che mascheravano sordidi affari, come la vendita di armi, mine antiuomo comprese, con finte trattative di pace. Condivisione e diplomazia popolare sono principi che sono poi rimasti alla base del nostro impegno.

La scelta di svolgere un’attività a Gradacac fu originata dal fatto che la maggior parte dei camionisti, nonché il capoconvoglio del “Convoy of Joy”, venivano da questa città. Ma Gradacac è anche un simbolo della Bosnia: Zmaj od Bosne, “drago della Bosnia”, come Husein-beg Gradascevic, che tra il 1830 e il 1832 guidò una grande rivolta anti-ottomana.

Un problema era comunque quello di capire cosa stava accadendo intorno a noi, come si era giunti a questa situazione. Vi è uno slavo specifico (almeno slavo meridionale), come razzisticamente si vorrebbe, negli aspetti di ferocia particolarmente rivoltante che si sono manifestati in questa guerra? Non credo che vi sia differenza tra il miliziano delle “aquile bianche” e il naziskin romano che dà fuoco al clochard extracomunitario che dorme a Roma nei cartoni. Si tratta sempre di esigue minoranze, ma è incredibile il male che un’esigua minoranza può fare, e come questo può cambiare gli atteggiamenti di una larghissima parte di popolazione. Del resto, proprio la BiH vide nell’ultima guerra mondiale episodi di ferocia incredibile, in cui si distinsero, accanto agli ustacia di Ante Pavelic, tedeschi ed italiani. E nella classe della ferocia inumana tutti si distinsero, perché non si possono fare graduatorie dell’abominio.

Lo scenario che va innanzitutto capito è quello dei Balcani, che sono più un’ideologia che un quadro geografico e politico. Non è quindi tanto un problema di luoghi, quanto del concetto di “balcanismo”. Occorre cominciare a capirlo sin da quando, nel V e VI secolo, gli slavi meridionali hanno cominciato a riversarsi in queste terre. È nell’ambito dei Balcani che il nazionalismo acquista dei caratteri estremamente specifici. Ben diversi da quelli del nazionalismo europeo occidentale, figlio della Rivoluzione francese e del romanticismo, se non della rivoluzione industriale.

Senza capire questo curioso nazionalismo, figlio del sistema dei millet turchi, senza terra né confini inviolabili, ma con dei “luoghi sacri” (come Kosovo Polje), e la storiografia largamente mitica e del tutto ideologica (anche per eventi recentissimi) che impera in questi luoghi, è impossibile rendersi conto di quel che qui è realmente accaduto. Si pensi solo a quanto qui siano intersecate tra di loro lingua e questione nazionale. Nei Balcani, il problema raggiunge delle tensioni difficilmente eguagliate nel resto del mondo. Su differenze linguistiche spesso minimali sono state costruite a posteriori incredibili vicende storiche e affermazioni nazionalistiche.

Occorreva capire quali erano i popoli che si muovevano in questo scenario, con la loro storia mitica e, per quel che riguarda questa guerra, le loro ragioni. Non parlo dei torti mostruosi difficilmente concepibili. Ma i torti non sono le ragioni della parte avversa. Il fatto è che accanto ai torti, tutti avevano ragione. E tutti avevano miti, dallo car Lazar dei Serbi alla scacchiera di Zrinski dei Croati, fino alla conversione dei bogomili all’islamismo con la conquista ottomana per i musulmani.

Cosa facevamo a Gradacac? Se si vuole, era la cosa più semplice del mondo. Vivevamo con la gente. Non ci limitavamo a spedire aiuti, pure indispensabili, o a tenere in piedi una rete di adozioni a distanza di famiglie, che pure ha avuto esiti straordinari per una città assediata, come la costruzione di un ponte con il resto del mondo. Vivevamo con la gente sotto le granate quotidiane. Una notte, una è entrata nella camera dove dormivo, perforando il muro esterno. Non è esplosa, non sarei qui a raccontarvelo. Ma non avevamo paura? Oh, sì, una paura spaventosa. Come loro.

Vedevamo appunto, le cose con i loro occhi. Concepivamo il costruire una cultura di pace dal basso come unica e inevitabile via per uscire dall’inferno. E cosa significava il volontariato? Era darsi come persone, non come professionisti, con le nostre debolezze, ma con la straordinaria forza di essere noi stessi sempre. Era vivere la non violenza come atteggiamento di fondo, in tutte le cose, in tutti i rapporti. Concepire il pacifismo come opzione politica che da quella discende. Non come primum moralistico che autorizzava i vari Adriano Sofri a teorizzare le bombe umanitarie.

Ogni attività di aiuto umanitario è contraddittoria. Di fatto, l’aiuto fornisce ai governi l’alibi per distogliere la propria attenzione dai problemi della gente e concentrare le risorse sulla guerra. Paradossalmente, l’aiuto è un sostegno indiretto alla guerra.
Ci chiediamo: c’è un futuro nell’inferno? Il disastro di questa guerra è stato un disastro prima delle coscienze e dello spirito, poi delle paurose sofferenze fisiche e delle macerie materiali. Come la guerra del Golfo o il problema palestinese, è un disastro per l’Occidente, per noi, come ottundimento di coscienze. Spinti a vedere solo nella forza la soluzione dei problemi, sperimentiamo l’insuccesso radicale della prova di forza: i talebani seguitano a controllare i due terzi dell’Afghanistan, in Iraq gli omicidi seguitano a essere quotidiani, la striscia di Gaza è un inferno e le sofferenze di tutti i popoli coinvolti si sono moltiplicate.

La chiave di questa guerra balcanica è stata fuori dai Balcani, come sempre, per tutte le guerre che qui si sono combattute. Il disastro del Kosovo è figlio delle guerre degli anni ’90 e degli accordi di Dayton, che hanno sancito il primato della divisione etnica. Ma quando torniamo a Gradacac e vediamo che lì i problemi etnici sono ridotti rispetto a quanto avviene nel resto della BiH, forse, da illusi, pensiamo che un po’ del merito è stato anche nostro.

Riccardo Luccio
Professore Ordinario,
Direttore del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Trieste

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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