Un binomio impossibile?

Numerosi osservatori, anche questa volta, hanno messo in evidenza, sia sulla stampa, sia nelle pubblicazioni specialistiche, come la scuola sia sempre più restia al cambiamento e come ogni riforma venga comunque contrastata. Non si può negare questa realtà, ma bisogna analizzarne i fenomeni con cui si manifesta, per capire le dinamiche che si scatenano quando le spinte all’innovazione provengono da norme riformistiche.

Un primo fenomeno è definibile come “inerzia organizzativa” e si riferisce alla difficile traduzione di tutte le riforme in pratiche professionali: si pensi alla “riforma rivoluzionaria” (la definizione è da attribuire ad A. Cocozza ed è contenuta nell’omonimo saggio del 2004 [1]) rappresentata dall’introduzione nel nostro ordinamento amministrativo di norme ispirate ai principi del decentramento, dell’autonomia e della sussidiarietà. La cifra rivoluzionaria di tali riforme consiste nel fatto che sono state poste, a partire dal 1990, le condizioni normative e le leve gestionali per passare, anche nella pubblica amministrazione, da un modello burocratico basato sulla conformità alle procedure e sul centralismo decisionale, ad un modello professionale ispirato al perseguimento di risultati riferiti alla qualità del servizio erogato e all’assunzione di decisioni locali. La mancata evoluzione dell’autonomia – da parte delle singole scuole, ma anche da parte dell’amministrazione centrale – rappresenta un esempio formidabile del fenomeno di inerzia che è stato capace di disinnescare la potenza innovativa di un’autonomia che chiedeva di essere interpretata da tutti gli attori al massimo livello in due ambiti: la didattica e la ricerca/sperimentazione curriculare.

Un secondo fenomeno è rappresentato da una sorta di “resistenza passiva” che si oppone alle norme che impongono isolati cambiamenti in relazione a singoli aspetti dell’organizzazione. E ciò avviene perché tali norme non appaiono così minacciose come quelle di tipo riformistico, che invece impongono forti cambiamenti strutturali, veri e propri mutamenti. Questo tipo di resistenza al cambiamento, dunque, nelle scuole si configura come una sorta di svuotamento degli aspetti innovativi, depotenziando il cambiamento perché il nuovo viene riassorbito dalle routines organizzative esistenti. E ciò avviene soprattutto quando le norme chiedono cambiamenti nei programmi scolastici, nelle metodologie, nelle modalità e criteri di valutazione. Il fenomeno può essere così sintetizzato: tutto cambia, ma, in sostanza, non cambia niente. Un esempio – ma potrebbero esserne riferiti di ben più numerosi – è costituito dall’O.M. n. 92/2007 che ha fatto sì che tutte le scuole organizzassero obbligatoriamente i corsi di recupero, lasciandone immutata la didattica che si realizza in aula e che, di fatti, è parte rilevante (anche se non esclusiva) dell’insuccesso scolastico.

Infine, il fenomeno della “resistenza attiva” che oggi è di grande attualità perché, in questi due ultimi mesi, ha incanalato, in modo pubblico e visibile, la voce della protesta di quella parte della comunità scolastica (non solo il personale, ma anche studenti e genitori) che si sente minacciata dai cambiamenti radicali (e strutturali) delle attuali e radicate modalità di funzionamento del sistema scolastico. Mentre i primi due fenomeni sono interni alle scuole, quest’ultimo, esercitato in modo collettivo ed organizzato, esplicita ed argomenta sui motivi della resistenza al cambiamento e, dunque, diventa un fenomeno sociale e politico.

Non possiamo argomentare compiutamente il perché tali fenomeni si manifestino soprattutto nelle pubbliche amministrazioni, ma è condivisa da numerosi studiosi l’ipotesi che le politiche di innovazione basate sulle spinte al cambiamento disegnate in un nuovo quadro amministrativo ed istituzionale, per essere tradotte in pratica[2], devono intercettare (o determinare in caso siano deboli o inesistenti) le spinte al cambiamento provenienti dal basso. Insomma, il cambiamento di un’organizzazione come la scuola richiede l’organizzazione del cambiamento, facendosi carico sia degli aspetti tecnici della gestione delle riforme attraverso le norme attuative, sia degli aspetti emotivi del cambiare.

La complessità di ogni singola scuola deve fare i conti con la sua tipica dualità: da una parte c’è la scuola come istituzione organizzata dentro un apparato amministrativo con forte connotazione burocratica e centralistica, dall’altra c’è la scuola come comunità, come rete di attori ciascuno dei quali ha l’esigenza di esprimere la propria soggettività, densa di emozioni connesse con il cambiamento: l’ansia determinata dal passaggio dal certo all’incerto, dal passato al futuro; la paura di perdere la propria identità costruita temporalmente e socialmente; la voglia di protagonismo che si può esprimere soltanto in un processo di cambiamento partecipato fin dalla sua origine (changing) e non subito come mera applicazione di dispositivi normativi (change).

Cambiare è divenire e nessuna trasformazione è immune da costi emotivi. Se il cambiamento non si trasforma, per ogni scuola, in un “progetto di cambiamento” di ciascuna persona, assume le sembianze di una minaccia e non di un’opportunità di ben-essere e ben-divenire.

Ivana Summa
Dirigente scolastica del Liceo Minghetti di Bologna

 


[1] Antonio Cocozza, La riforma rivoluzionaria. Leadership, gruppi professionali e valorizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, Milano, FrancoAngeli, 2004.

[2] Gherardi S., Lippi A. (a cura di), Tradurre le riforme in pratica, Milano, Raffaello Cortina, 2000.

 

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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