L’acqua è di tutti

Esiste oggi, nel XXI secolo, un diritto all’acqua? Se l’acqua è fonte di vita allora è sicuramente così.Ma riconoscere questo principio significa consentire ai cittadini di partecipare alla sua salvaguardia attraverso gli strumenti della democrazia partecipativa, una strategia che contrasta con la delega al mercato della gestione di questo bene

La risposta che la maggior parte dei cittadini è portata a dare di fronte a questo quesito, è quella che l’acqua è un diritto umano. Le ragioni sulle quali si basa questa convinzione comune è fondata su alcuni presupposti: se l’acqua è fonte di vita è ovvio che ad ogni essere umano deve essere garantito l’accesso all’acqua. Se l’umanità è composta da esseri umani ed esseri viventi, essendo l’acqua la componente essenziale per la loro sopravvivenza è chiaro che essa sia un diritto umano fondamentale. Riconoscere l’acqua come un diritto umano, quindi come un bene comune, significa riconoscere la possibilità dei cittadini di partecipare alla sua gestione e salvaguardia, attraverso gli strumenti della democrazia partecipativa in contrasto quindi con le opzioni che puntano a delegare al mercato la gestione di questo bene. Esistono quindi sia in termini di principio, che de facto, una serie di motivazioni che giustificano la richiesta non solo il riconoscimento del “diritto all’acqua”, ma anche della formalizzazione di questo diritto nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, nella Costituzione Europea, nelle costituzioni o norme nazionali e in quelle regionali dei singoli paesi. Il mancato accesso all’acqua potabile negato ancor oggi, nel XXI secolo, sul pianeta terra, ad oltre un miliardo e 300 milioni di persone che risiedono nelle periferie più povere del mondo, attesta invece che nei fatti l’accesso all’acqua non è un diritto e ciò è dovuto anche all’indifferenza con cui la comunità internazionale ed i singoli Stati hanno finora affrontato l’accesso all’acqua. Il paradosso di fronte al quale ci troviamo è quello che “de facto”, la comunità internazionale considera l’accesso all’acqua come un diritto umano all’acqua, ma sono pochi gli Stati hanno finora avuto il coraggio, spesso sotto la pressione di referendum e mobilitazione dei cittadini, di formalizzare questa opzione nelle proprie Carte Costituzionale (Bolivia, Uruguay) o di emanare leggi nazionali in tal senso (Belgio, Svizzera, Paesi bassi).

La motivazione, dietro la quale spesso ci si nasconde, è quella che essendo talmente ovvio che l’accesso all’acqua sia un diritto risulta pleonastico esplicitarlo in termini formali, anche perché in tutti gli Stati la proprietà delle risorse idriche è pubblica. Inoltre si ricorda che diverse conferenze internazionali si sono pronunciate a sostegno del diritto all’acqua. La conferenza N.U del Mar della Plata sull’acqua, svoltasi nel 1977, costituisce il primo contesto internazionale nel quale infatti viene affermato che l’acqua è un diritto umano. Dopo 20 anni è possibile trovare un secondo riconoscimento come raccomandazione nel Rapporto della Commissione dei diritti Umani delle N.U (1997) . Ulteriori pronunciamenti a sostegno di questo principio, sono contenuti nelle dichiarazioni finali della Conferenza di Dublino (1992) promossa dall’Organizzazione Mondiale sull’Acqua e l’ambiente (prospettive di sviluppo per il XXI secolo), nella Dichiarazione sull’ambiente e lo sviluppo sostenibile (1992) a conclusione della Conferenza delle N.U di Rio de Janeiro, la Dichiarazione del Mar della Plata (1997). In queste Dichiarazioni si afferma infatti il principio di base che tutti i popoli, qualunque sia il loro livello di sviluppo e situazione economica e sociale, “hanno diritto ad avere accesso all’acqua potabile nella quantità e qualità necessaria per soddisfare i loro bisogni essenziali”. è possibile però riscontrare in queste dichiarazioni anche altri principi , che sono alla base della nuova cultura della mercificazione dell’acqua. Si parla infatti per la prima volta di “gestione integrata delle risorse d’acqua”, si introduce il principio che “l’acqua fa parte dell’eco-sistema e costituisce quindi una risorsa naturale”. L’acqua diventa cioè un “bene economico” non più la res communis omnium del diritto romano. Ufficialmente inizia qui il processo di privatizzazione dell’acqua a livello internazionale, che viene sottoscritto dai governi partecipanti. Certo possiamo riscontare anche proposte come il principio “chi inquina paga”, il concetto di “sviluppo sostenibile”, il principio della precauzionalità e della salvaguardia delle risorse in funzione delle future generazioni. Ma questi come altri pronunciamenti a cui si può associare quello sancito dal Comitato sui diritti dell’uomo economico e sociale (novembre del 2002) che ha dichiarato che “l’acqua deve essere trattato e riconosciuto come un diritto umano e non come un bene economico”, non sono principi in grado di difendere il riconoscimento all’accesso all’acqua come “diritto” a livello internazionale.

Il patto internazionale dei Diritti dell’uomo civili e politici è sottoposto a controllo con funzioni coercitive da parte della Commissione dei Diritti umani, cosi come i principi sanciti nei “trattati e convenzioni internazionali” sono vincolanti solo per gli Stati che li sottoscrivono. Le norme e le controversie sono molto spesso demandate a sentenza di Corti Arbitrali identificate dagli stessi sottoscrittori. Certamente i vari pronunciamenti delle Corti di giustizia possono contribuire a costruire alcuni punti di riferimento a sostegno e tutela di un “diritto all’acqua” ma è noto che un “diritto” esiste in termini istituzionali, solo se c’è una norma non scritta,cioè se comporta un obbligo, se esiste una autorità che ha l’autorità per garantirlo. L’accesso all’acqua resta quindi ancora oggi una prassi, un diritto filosofico. Di fatto la tesi sostenuta da diverse scuole di Diritto Internazionale è quella che il “diritto all’acqua “ è un principio di soft-law, per altri è un diritto internazionalmente riconosciuto e sancito “de facto”, anche in assenza di una norma o di un contratto. La “cultura” dell’acqua, in termini teorici accessibile a tutti, perché risorsa comune del pianeta e della convivenza, anche se in termini disuguali, perché messa a disposizione dall’ecosistema, cioè dalla natura, e bene riconosciuto per decenni, de facto, come un diritto inalienabile dalle principali convenzioni internazionali, ha subito però sotto gli impulsi della globalizzazione, nel corso degli ultimi dieci anni, una profonda metamorfosi. Oggi la cultura prevalente è quella che l’acqua è diventato un bisogno, da bene comune è stata trasformata in una “merce” la cui gestione è stata affidata al mercato ed ai suoi operatori (le imprese private) e questo approccio culturale è stato introdotto dalla Comunità internazionale, dagli Stati, ma anche dai comportamenti e prassi quotidiane accettate dagli stessi cittadini che si sono trasformati in consumatori, in utenti

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Come sono avvenute queste trasformazioni
Le mistificazioni rispetto al diritto all’acqua, che si sono concretizzate soprattutto nel corso degli ultimi due decenni dello scorso secolo, sono la diretta conseguenza del mancato riconoscimento da parte della comunità internazionale del diritto all’acqua. In presenza della crescita del numero di coloro che non hanno la possibilità di accedere all’acqua potabile – si stima che nel 2015, con l’attuale livello di crescita, saranno 3,4 miliardi le persone che non avranno diritto all’acqua potabile e metà della popolazione mondiale del 2020 risiederà in aree con problemi idrici, queste proiezioni per una crescita esponenziale della “domanda d’acqua” associata alla scarsità della disponibilità hanno portato alcuni operatori del mercato ad introdurre e promuovere una cultura “economica” dell’acqua come risorsa. Ecco allora che attraverso una serie di conferenze internazionali, promosse ed organizzate da “privati” lentamente si è fatto sparire il principio dell’accesso all’acqua come un “diritto umano” ed è stata affermata la priorità del carattere economico dell’acqua. L’acqua è diventata prima un bisogno, poi una merce ed infine un servizio.
Quali sono stati gli eventi che hanno segnato questa inversione di rotta Si è cominciato con la Conferenza e Dichiarazione di Bonn (dicembre 2001) nel corso della quale è stato accolta, dagli Stati Nazioni, l’esclusione della richiesta di inserimento del diritto all’acqua dalla dichiarazione finale. Infine con la Conferenza di Johannesburg (2002) sublimata dalla accettazione tacita dei Governi, trionfa il principio che è l’investimento privato il motore dello sviluppo sostenibile. Preso atto della incapacità da parte dei Paesi più industrializzati di assicurare le risorse per lo sviluppo dei poveri si accetta la “cultura della privatizzazione” della gestione ed il modello del Partnernariato pubblico-privato nella gestione delle risorse idriche diventa il modello vincente per soddisfare i bisogni e promuovere lo sviluppo sostenibile.

Poi si è passati alla fase dell’elaborazione della nuova cultura dell’acqua.
Sotto la spinta della Banca Mondiale, del WTO (OMC, Organizzazione Mondiale del Commercio) e a lato del Consiglio Mondiale sull’ Acqua , il progressivo coinvolgendo delle agenzie ONU procede a promuovere i Forum mondiali ogni tre anni con lo scopo di porre le basi di politiche mondiali sul tema. Contemporaneamente si istituisce il Global Water Partnership con lo scopo di promuovere un partenariato tra aziende pubbliche e private e, quattro anni dopo, la Commissione Mondiale sull’acqua con scopi di coordinamento e studio di proposte operative, tra le quali il modello delle Partenariato pubblico-privato cioè i soggetti “misti” pubblico-privati che rappresentano il secondo passo internazionale verso la privatizzazione. I risultati di questi processi vengono quindi codificati attraversi le Dichiarazioni finali dei Forum Mondiali sull’acqua. La Dichiarazione finale del Forum Mondiale sull’acqua (marzo 2000) sancisce il principio che l’accesso all’acqua è un “bisogno”; il 3° Forum Mondiale dell’Acqua di Kyoto (marzo 2003) trasforma l’acqua da un bene in una risorsa di promozione di uno sviluppo sostenibile capace di preservare l’ambiente, sradicare la povertà, la fame e conferma che l’acqua è una risorsa indispensabile da soddisfare come bisogno, introducendo il principio che per accedere all’acqua bisogna pagare il giusto prezzo (cioè l’acqua diventa una merce che si compra sul mercato).

Dove risiedono le responsabilità di queste inversioni di tendenza?
Il primo livello di responsabilità risiede nel Consiglio Mondiale dell’acqua ed il Global Water Partnership, due strutture promosse e controllate dalle principali imprese multinazionali dell’acqua, che hanno organizzato e gestito i Forum Mondiali dell’acqua. Ma anche i singoli Stati che non si sono impegnati per chiedere il riconoscimento “formale” del diritto all’acqua nelle Dichiarazioni finali hanno la loro parte di responsabilità.
Infine va segnalato che anche le Nazioni Unite e la comunità internazionale hanno la loro parte di responsabilità. Sono loro che hanno accettato la trasformazione dell’acqua in “merce” ed il modello del partenariato pubblico-privato come l’ unico strumento per garantire l’accesso all’acqua a tutti. Ma la responsabilità più rilevante risiede nella “politica”, cioè nelle coalizioni di governo che rappresentano le espressioni della democrazia rappresentativa. Anziché impegnarsi per la difesa dei diritti, si sono lasciati condizionare dagli interessi “forti”: le classi politiche hanno la responsabilità di aver delegato la gestione dei servizi a libero mercato Un condizionamento che chiama in causa non solo i Governi dei singoli stati ma anche la stessa Unione Europea che sempre nel ’94 sottoscrisse a Marrakech in sede WTO gli accordi per la liberalizzazione dei servizi, principio che viene confermato nel vertice di Lisbona nel 2002. L’inserimento dell’acqua nell’agenda del WTO (OMC) e specialmente nella sezione GATS (AGCS), il mancato inserimento nella Costituzione Europea del diritto all’acqua, ed il dibattito in atto a livello della Commissione tra servizi di interesse generale e di interesse economico generale, ed il rischio è che questi ultimi siano soggetti al mercato ed alle regole sulla concorrenza, costituiscono i nuovi passaggi attraverso i quali si vuole completare la “mercificazione dell’acqua” e l’abbandono della prospettiva del suo riconoscimento come “diritto umano”. La Commissione ha infatti finora delegato alle classi politiche nazionali la piena responsabilità della scelta: ogni stato può puntare sulla via liberista dichiarando la rilevanza economica dell’ acqua, e allora si mette sul mercato la gestione dei servizi con gare di evidenza pubblica. Oppure si dichiara l’acqua un bene di interesse generale ed allora la si può gestire localmente con strumenti di diritto pubblico, municipalizzate e consorzi od altri che si possono sempre costituire..

Nello caso italiano, la scelta del legislatore, sia a destra che a sinistra, è stata ambigua ponendosi nelle intenzioni dichiarate a metà tra innamoramento del mercato e mantenimento del controllo politico. Nonostante sotto la pressione dei movimenti il Governo Prodi abbia accettato di inserire nel proprio programma che proprietà e gestione dell’acqua devono essere pubblici, a tutt’oggi il Governo non ha mantenuto l’impegno redigendo un testo di legge e si è limitato ad escludere i servizi idrici dai provvedimenti sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali (decreto Bersani e Lanzillotta) Nel nostro paese restano in vigore i principi di riferimento contenuti nella legge Galli, che definisce la gestione dei servizi idrici un servizio industriale, sulla quale è previsto, per legge che chi gestisce il servizio possa fare un profitto( almeno il 7%). Dopo la riforma del titolo quinto della costituzione la potestà legislativa ed il controllo, è passata al potere di regolamentazione delle regioni. è stato cosi possibile ad alcune Regioni, come la Lombardia, di sancire per legge che i servizi idrici sono servizi di “rilevanza economica”, e quindi regolamentati dal mercato, sposando ed anticipando di fatto gli orientamenti europei. Il risultato è che oggi in Italia le gestioni sono state affidate direttamente a SpA a totale capitale pubblico o miste e molti degli affidamenti non soddisfano i principi della libera concorrenza e del libero mercato previsti dalle direttive della UE per i servizi di rilevanza economica. Per contrastare queste tendenze e culture dominanti in Italia, il Forum dei movimenti dell’acqua si è fatto promotore della legge di iniziativa popolare che punta al riconoscimento dell’acqua come diritto umano ed alla richiesta di ripubblicizzazione della gestione dei servizi idrici. (www.acquabenecomune.org). Per contrastare queste tendenze a livello internazionale, Movimenti, cittadini, sindacati, enti locali, parlamentari di diversi paesi del mondo hanno approvato, a conclusione della Assemblea mondiale dei cittadini ed eletti per l’acqua, svoltosi preso il parlamento europeo dal 18 al 20 marzo, una Dichiarazione di impegno che è stata fatta propria dai Ministri italiani Sentinelli e Pecoraro Scanio e dal Ministro della Bolivia Amani, per ottenere il riconoscimento del diritto all’acqua entro il 2008 da parte della Commissione dei Diritti umani e sociali (www.amece.be)

Rosario Lembo
Segretario nazionale Comitato Italiano
per un contratto mondiale dell’acqua

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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