Diritti e doveri dell’immigrato

Una breve riflessione sulle politiche di contrasto dell’immigrazione clandestina e su quelle per l’integrazione

 Anche questa estate – come oramai accade da alcuni anni – stampa e tv hanno dedicato ampi spazi alla questione immigrazione, o meglio al “problema” immigrati, visto che le cronache di ogni giorno sono costrette ad affrontare gli aspetti patologici di questo fenomeno oramai strutturale per la nostra società. Le ondate di sbarchi sulle coste siciliane preoccupano fortemente l’opinione pubblica.

Certamente non si può parlare di invasione come a molti piace dire. Statisticamente i numeri sono poco significativi se paragonati agli ingressi clandestini via terra ed al fenomeno degli overstayers. Ma è invece certo che ogni giorno si consumano tragedie alle quali non riusciamo a porre rimedio.

Sappiamo benissimo da dove provengono questi sventurati, quali sono le rotte terrestri che dal Magreb o dall’Africa subsahariana li conducono alle spiagge libiche e da qui in Italia.

Ma siamo impotenti. Bene, allora, che il Governo abbia deciso di potenziare gli strumenti penali e di polizia per migliorare la lotta alle organizzazioni criminali che lucrano cifre immense. Meglio ancora se, oltre alle indispensabili azioni europee a sostegno delle economie dei paesi di origine, alle operazioni congiunte di pattugliamento delle acque prospicienti la Libia, ai più incisivi accordi di collaborazione con questo e con gli altri paesi magrebini (almeno il 50% dei clandestini via mare non è rimpatriato anche perché alcune autorità consolari sono poco disponibili ad identificare i propri connazionali, e senza una certa identificazione è impossibile il rimpatrio), lo Stato si impegnasse in una campagna mediatica sulla stampa e sulle emittenti dei paesi di provenienza e di transito per far conoscere ai potenziali migranti i rischi del viaggio e soprattutto la certezza del rimpatrio coattivo una volta giunti in Italia. Ciò che oggi rimbalza oltre il Mediterraneo sono le immagini dell’accoglienza, le dichiarazioni di qualificati esponenti politici che parlano di sanatorie, i titoli dei giornali che – troppo superficialmente ed erroneamente – preannunciano leggi che conferiscono la cittadinanza italiana a chi nasce in Italia. La campagna mediatica (e ciò vale anche per gli altri paesi dell’Est Europa a forte spinta migratoria) dovrebbe essere affidata ai nostri consolati, adeguatamente potenziati anche per velocizzare le procedure di rilascio visti per chi ne ha titolo e, soprattutto, per creare una sorta di centri di collocamento in grado di ricevere le richieste degli aspiranti migranti, nell’ambito di una rinnovata politica degli ingressi incentrata anche sulla previsione di autorizzazioni all’ingresso per lavoro in prova.

Se è vero, come è vero, che questi traffici sono gestiti da organizzazioni criminali ben strutturate, bisogna essere davvero sprovveduti a non capire che queste immagini e queste dichiarazioni costituiscono vere e proprie credenziali sapientemente sfruttate dai moderni negrieri. Omicidi, stupri e minacce terroristiche imputabili soprattutto ad immigrati di “fede”islamica fanno vacillare la convinzione che sia possibile una pacifica convivenza tra persone e comunità appartenenti a culture differenti ed a volte assai distanti. Ci si interroga su quali modelli adottare. Si dice che sia l’assimilazione – vera o di facciata- francese e sia l’integrazione “tollerante” inglese hanno fallito. Personalmente non credo che esista una ricetta valida per ogni stagione e per tutte le latitudini. L’Italia vanta una immigrazione giovanissima e del tutto differente rispetto agli altri paesi europei in quanto è caratterizzata da una forte frammentazione etnica, peraltro del tutto corrispondente all’assetto della nostra società, storicamente altrettanto multiforme e pluriculturale.

Ciò significa che il modello italiano deve tenere conto di questo pluralismo etnico, assecondando le specifiche vocazioni dei propri immigrati, fermo restando un comune denominatore: il rispetto e la condivisione dei nostri valori fondamentali.

Molti immigrati, anche tra i musulmani, aspirano ad una vera e propria assimilazione; altri sono fortemente ancorati alle proprie tradizioni ed alla propria cultura che intendono conservare e trasmettere ai propri figli, senza però entrare in conflitto con i valori della società di accoglienza che, anzi, desiderano condividere; altri ancora non hanno alcuna intenzione di integrarsi, se non per salvaguardare i propri interessi di borsa..

È perciò condivisibile il disegno di legge del Governo di riforma della cittadinanza (al di là della saggia decisione di introdurre un condizionato ius soli ed altre misure di favore per i minori, e senza invece entrare nel merito se cinque anni costituiscano o meno un tempo sufficiente per la naturalizzazione) che prevede una verifica della reale integrazione linguistica e sociale dello straniero nel territorio dello Stato. Ma – e questo è il nodo di una accorta politica per l’integrazione – se rispetto a qualche centinaio di migliaia di nuovi cittadini che si presume saranno interessati o avranno i requisiti per ottenere la cittadinanza avremo uno strumento di valutazione del loro percorso di integrazione o addirittura di vera assimilazione, possiamo ancora permetterci il lusso di trascurare la disponibilità o meno dei milioni di immigrati che non diventeranno cittadini a condividere i nostri valori? Certamente se ciò è fondamentale ai fini dell’acquisto della cittadinanza non è certo meno rilevante ai fini di una pacifica e positiva convivenza. L’obiettivo potrebbe essere raggiunto mediante la stipula di un vero e proprio contratto con il quale le parti si impegnano al fine di instaurare un rapporto di fiducia e di obbligo reciproco. Un “patto” che impegna lo Stato a garantire all’immigrato regolare una formazione civica riguardante i valori ed i principi della Repubblica ed i diritti fondamentali del cittadino ed a fornire allo straniero una conoscenza linguistica di base. Da parte sua l’immigrato si impegnerà a rispettare i valori fondamentali della Repubblica e le sue leggi, ed a frequentare i corsi di lingua e di educazione civica. Si tratterebbe di una operazione complessa e costosa, ma non per questo irrealizzabile, soprattutto guardando alla preannunciata riforma del testo unico del 1998 e della Bossi/Fini che dovrebbe condurre anche al trasferimento delle competenze in materia di rilascio del permesso di soggiorno dalle questure ai comuni. Chi meglio del sindaco potrebbe conferire alla sottoscrizione del “patto” un alto significato simbolico: non un mero adempimento burocratico da assolvere distrattamente come una qualunque pratica, ma un momento solenne in cui il primo cittadino accoglie nella comunità un nuovo soggetto, titolare di obblighi e di diritti sanciti nel documento da entrambi sottoscritto. Nella prospettiva che ciò possa realmente realizzarsi, già oggi lo Stato dovrebbe imporre ad ogni immigrato, al momento della richiesta del permesso o della carta di soggiorno e, a maggior ragione in occasione della richiesta del ricongiungimento familiare, la sottoscrizione di una formale assunzione di responsabilità (nella sua lingua) per quanto riguarda l’osservanza in generale delle leggi italiane e, in modo più esplicito, il ripudio di pratiche che ledono i diritti delle donne e dei minori, come garantiti e protetti dal nostro ordinamento.

 

Raffaele Miele
Dottore in Giurisprudenza, dirigente di Commissariato, di Ufficio stranieri e dei Reparti Prevenzione Crimine della Criminalpol della Polizia di Stato.
Nel novembre 2003 ha fondato lo Studio Immigrazione

Rispondi