La testimonianza di Micaela Marangone

Aprire un dialogo tra chi si crede normale e chi è considerato sfortunato

Micaela Marangone è nata a Trieste il 22 novembre 1988. Frequenta la seconda Liceo presso il Liceo Classico “J.Stellini” di Udine. Le attività extra-scolastiche sono: studio del pianoforte e nuoto riabilitativo. La malattia di cui è affetta è la Sindrome di Conradi con patologie associate e non deambulazione.

Il dover affrontare un tema dai molteplici aspetti come quello della giustizia minorile, mi spinge innanzitutto a riflettere sul principio che sta alla base della vita di ogni uomo: il diritto che hanno tutti i bambini e i ragazzi di poter crescere serenamente e di poter pianificare e costruire il proprio futuro  sulla base dei desideri e delle aspettative di ciascuno.

La prima cosa che mi viene in mente pensando a questo diritto è un’esperienza che ho vissuta quando ancora frequentavo al scuola elementare: un giorno ci hanno fatto vedere un filmato che raccontava la storia di bambini, che ancora molto piccoli, vengono strappati alle loro famiglie e costretti a lavorare in una fabbrica di tappeti, dovendo faticare giorno e notte per guadagnare qualche soldo da portare a casa. Questi bambini (che sono ancora molti, in ogni parte del mondo) conoscono una vita fatta esclusivamente di doveri, di lavoro e di silenzi, privata dell’affetto dei genitori, della spensieratezza  e dei momenti di gioco , di studio e di svago. Molti di questi piccoli muoiono molto prima di raggiungere l’età adulta, stroncati dalla fame, dalla stanchezza e dalla fatica. Per me, ragazza diciassettenne portatrice dalla nascita di un handicap che mi impedisce di camminare, esperienze come questa hanno significato molto e mi hanno fatto capire che al mondo ci sono migliaia di giovani vite che vivono in condizioni ben più disperate della mia, magari senza famiglia o senza un alloggio o comunque senza la  possibilità – indispensabile – di essere veramente bambini, per diventare, un giorno, veramente uomini.

Guardando alla vita di ogni giorno, posso certamente ritenermi fortunata, considerando che ho una famiglia, dei parenti e degli amici che mi amano e mi stimano e vivo in Paese ricco e industrializzato, che fornisce ai suoi abitanti le risorse e le ricchezze – fin troppe – per condurre un’esistenza agiata.

Eppure, ripercorrendo a fondo le tappe della mia breve vita, mi rendo conto che chi vive la mia situazione si trova ad affrontare molte difficoltà che la struttura mentale della nostra società, ci impedisce di superare.

Fin da piccola, infatti, ho dovuto fari i conti con persone che non sono mai riuscite ad accettarmi per quello che sono, con la mia difficoltà, e mi hanno fatto sentire diversa, esclusa dalla massa della gente che si crede “normale”.

Questo atteggiamento, la maggior parte delle volte, non è dettato dalla cattiveria del singolo, ma da un modo di pensare di gruppo che è sbagliato alla radice.

Si è soliti guardare chi è disabile come una persona da compatire, uno che sarà sempre infelice perché  gli “manca” qualcosa, uno sfortunato. E allora, tanto vale emarginarlo, lasciarlo a crogiolarsi nella sua diversità, perché non ha il diritto di integrarsi nella massa degli altri, delle persone “perfette”. Un disabile non potrà mai essere “perfetto”.

Quante volte ho visto compassione, o indifferenza, o addirittura disprezzo negli occhi di chi, al solito, “guarda e passa”. Se c’è bisogno non si ferma a tendere una mano, perché “guarda senza vedere”.

Quante volte vorrei urlare in faccia a queste persone che da loro non voglio compassione, ma semplicemente essere trattata da persona normale, perché come chiunque altro io so pensare, so parlare, so capire e so ascoltare la voce del cuore. L’unica cosa che non posso fare è camminare, ma per questo no merito di essere guardata come un “alieno”.

Vorrei far capire agli altri che un disabile non è un infelice. È l’indifferenza delle persone che alle volte lo rende infelice. Questa freddezza spesso si trova anche nelle Istituzioni, che non tengono conto che per le persone portatrici di handicap anche i gradini dei marciapiedi, quelli sulle porte dei negozi, gli edifici senza ascensori, i mezzi pubblici non accessibili per una carrozzina, costituiscono degli ostacoli invalicabili che richiedono l’aiuto di qualcuno e tolgono preziosa autonomia a chi si muove su sedia a rotelle.

Ci tengo però a precisare che i pregiudizi e le difficoltà che spesso incontro lungo il percorso della mia vita,  non mi hanno mai tolto la gioia di vivere. Tra le persone che conosco, fortunatamente, ce ne sono molte che mi considerano un’amica, nonostante tutto, e i loro sorrisi carichi di affetto mi fanno venire voglia di ringraziare il Signore per quel dono splendido che è la vita.

Mi piacerebbe però che gli uomini fossero più capaci di aprire il loro cuore e di accettare anche chi è diverso, per razza, stato di appartenenza, religione o altro. Anche un sorriso, una frase come “vuoi venire con noi?” possono far cadere il muro dell’indifferenza. Credo che rimarremmo tutti stupiti nel vedere come è facile aprire un dialogo – normalissimo – tra chi si crede normale e chi è considerato sfortunato. Non ci vuole molto. Come disse qualcuno quando io non ero ancora nata “Un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per l’umanità”.

Micaela Marangone

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