Vite sospese

L’intervista a Magda Brienza, presidente del Tribunale per i minorenni di Roma

 “Stiamo parlando di un fenomeno sociale del quale si deve far carico l’intera comunità, le donne in situazione di disagio vanno cercate e sostenute  adeguatamente e per poterlo fare c’è bisogno di risorse e spesso i servizi sono carenti  di personale specializzato.  E’ necessario creare una rete più attiva che consenta  di rilevare tempestivamente i fenomeni sul territorio”

I fenomeni dell’abbandono e dell’infanticidio, sono pratiche storicamente note in culture meno evolute della nostra ed in alcuni paesi del mondo l’infanticidio è ancora presente sia come mezzo di soppressione dei bambini troppo gracili o portatori di handicap che di selezione sessuale. Anche nel nostro paese i casi di abbandono ed infanticidio, commessi per mano delle donne che hanno generato e messo al mondo questi bambini, sono sempre più frequenti.

Presidente Magda Brienza alla luce dell’evoluzione che ha avuto la società è legittimo chiedersi quali siano le motivazioni attuali che portano a queste drammatiche violazioni dei diritti dei bambini.

Quali spiegazioni possono esserci nel gesto di una madre che supera la decisione dell’aborto, arriva al termine della gravidanza, partorisce ed abbandona suo figlio in zone non compatibili con la vita?

“Non è detto che una donna abbia la possibilità di superare la decisione dell’aborto, ciò implicherebbe una valutazione consapevole. Ci si dovrebbe chiedere se questa donna ha avuto la possibilità di scegliere. Le norme per la prevenzione delle gravidanze indesiderate e dell’aborto sono spesso inapplicate, non sempre ci si trova di fronte ad una procreazione responsabile. La situazione delle donne immigrate, ad esempio, fa capire che si trovano in una situazione di debolezza, per paura o per ignoranza non entrano in contatto con i servizi sanitari e sociali che le aiuterebbero non solo sotto il profilo sanitario ma anche – e soprattutto – quello psicologico”.

Partecipando al convegno del 13 luglio alla Camera dei deputati, dove anche lei era fra i relatori, il nostro direttore ha espresso l’ipotesi che debba esserci sempre una sequenza di eventi quali violenza, solitudine, negazione della gravidanza perché una donna arrivi a commettere un gesto così drammatico. E’ d’accordo? Possono invece bastare singoli motivi come la depressione post partum o motivazioni di carattere sociale (donne senza permesso di soggiorno ecc.)?

 “Sono assolutamente d’accordo, i casi di abbandono ed infanticidio non sono tutti uguali. Spesso dietro una maternità difficile vi è una situazione di disagio psichico e sociale, la donna può essere malata di mente, tossicodipendente o vivere in uno stato di soggezione, ridotta in schiavitù, oppure semplicemente non essere matura, o ancora la gravidanza potrebbe essere il frutto di una violenza sessuale. Ecco, in questi casi si riscontra che l’abbandono è un dato costante e ricorrente: la donna presenta una struttura fragile della personalità, vive in uno stato di isolamento sociale ed affettivo, arriva al parto avendo persino negato a se stessa la gravidanza, vivendo l’evento come un momento drammatico e sviluppando atteggiamenti autodistruttivi e distruttivi verso il nascituro. Come disse la dott.ssa Persiani, giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni, “esse vivono il figlio come un nemico” e praticano l’abbandono sapendo che non avrà alcuna possibilità di sopravvivenza, oppure commettono infanticidio. Quindi ritengo che atti così gravi non siano la conseguenza di un solo fattore bensì la concorrenza di più fattori che si potenziano reciprocamente, dei quali la solitudine è il legante”.

Nel decennio 1993-2003 l’uccisione dei neonati è aumentata del 41% rispetto al decennio precedente, all’interno del numero complessivo di omicidi che, invece, è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo. Come spiega questa differenza?

 “Non conosco questo dato né da dove sia stato tratto, ma posso confermare che l’infanticidio è in aumento ed è fondamentalmente legato alla mutazione sociale ed al disagio economico”.

L’opinione pubblica inorridisce dinanzi al deliberato abbandono ed all’infanticidio: secondo la sua esperienza di magistrato impegnato da anni nella tutela per i diritti dei minorenni, cosa si sta facendo per arrestare la scia di orrore ed impedire di commettere questo orribile gesto? Inoltre, non si sono ancora spenti i dibattiti sulla fecondazione medicalmente assistita ed è noto il malessere che colpisce quelle coppie che si vedono costrette a tentare strade diverse per colmare il desiderio di genitorialità.

I neonati messi al mondo in contesti drammatici per la loro sopravvivenza  avrebbero allo stato attuale l’opportunità di essere adottati legalmente?

 “In Italia la legge è tra le più avanzate, è possibile oggi partorire in una struttura pubblica nell’anonimato, in assoluta sicurezza per permettere la tutela della salute di madre e bambino, senza che vi siano conseguenze negative e nell’assoluto rispetto del segreto.

Il bambino viene registrato ed il Tribunale per i minorenni, d’ufficio, ne stabilisce l’adottabilità e procede all’abbinamento con la coppia identificata ed in possesso dei requisiti secondo tempi tecnici che, se il neonato è sano, non superano una settimana dalla nascita.

Nel caso di bambini portatori di problemi più o meno gravi, come ad esempio quelli nati da madri tossicodipendenti che presentano crisi di astinenza da sostanze stupefacenti, le cure ospedaliere si prolungano e le coppie vengono identificate con ricerche più accurate, attingendo in entrambi i casi da un archivio già esistente.

Spesso, il tribunale ricorre anche alle inserzioni sui giornali o provvede a contattare istituti quali le case-famiglia per poter abbinare anche quei bambini portatori di gravi handicap e sono noti molti casi in cui l’adozione è andata a buon fine. Nei reparti di ostetricia e ginecologia italiani c’è una cultura molto diversa rispetto al passato: la madre non viene colpevolizzata per la sua scelta di rinunciare al figlio e gli operatori sono preparati a gestire queste situazioni. La legge inoltre consente alla madre di richiedere una sospensione per un massimo di due mesi, durante i quali garantisce le cure necessarie alla propria creatura e si riserva di decidere se tenerla con sé.

I servizi sociali della Provincia di Roma in precedenza ed ora quelli del Comune provvedono a seguire l’evoluzione di questi percorsi: quando si riunisce al Tribunale per i minorenni la Camera di Consiglio per gli abbinamenti è sempre presente un assistente sociale in veste di delegato dal Sindaco nominato tutore. Viene vagliata la situazione del bambino non riconosciuto ed alla madre viene fornito tutto il sostegno sociale e psicologico necessario.

I casi più tragici sono quelli dove non è possibile raggiungere le donne con l’informazione.

I dibattiti sono tanti, sono attivi i numeri verdi del Comune cui rivolgersi per sapere come comportarsi nei casi di gravidanze indesiderate o maternità difficili, esistono protocolli d’intesa: per impedire di arrivare a gesti così drammatici, è necessario intervenire in una fase molto precedente al parto.

Stiamo parlando di un fenomeno sociale del quale si deve far carico l’intera comunità, le donne in situazione di disagio vanno cercate e sostenute adeguatamente e per poterlo fare c’è bisogno di risorse e spesso i servizi sono carenti di personale specializzato. E’ necessario creare una rete più attiva che consenta di rilevare tempestivamente i fenomeni sul territorio”.

Stabilito che la legge italiana permette ad una madre di non riconoscere il proprio figlio e di rimanere anonima dopo il parto, il padre può essere in disaccordo con la madre e riconoscere il figlio pur rimanendo anonima la madre? I media hanno messo in luce tentativi di uomini, probabilmente coinvolti in traffici illegali di neonati, che si presentavano negli ospedali nel tentativo di riconoscere figli non propri. Questa legge può essere d’impulso allo sviluppo di fenomeni illegali simili?

 “Certamente, il padre potrebbe riconoscere il figlio anche contro la volontà materna. La legge, comunque, si avvale del sospetto di falso riconoscimento caso per caso. Per fare un esempio, se la persona che riconosce non è coniugata con la partoriente e quest’ultima non riconosce il figlio, l’ufficiale di stato civile deve segnalare la nascita al Tribunale per i minorenni  il  quale svolte le opportune indagini, nomina d’ufficio un curatore speciale autorizzandolo ad impugnare il riconoscimento per accertarne la veridicità. Un altro esempio è quello della donna immigrata che sostiene di essere giunta in Italia già in stato di gravidanza, frutto di una relazione all’estero, e successivamente si presenta un signore italiano per riconoscere il neonato, generando il sospetto nelle contraddizioni che emergono dal confronto delle due versioni. A quel punto, è il personale ospedaliero stesso che segnala questa volta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni, il quale non procederà d’ufficio come nell’esempio precedente, ma sarà cura del Pubblico Ministero presentare istanza di nomina di un curatore per l’impugnazione del  riconoscimento sospettato di falso. Si tutela il bambino proprio per evitare il proliferare di traffici illegali ed oggi non è difficile accertare la verità, potendosi effettuare l’esame del DNA che ne accerti l’appartenenza biologica”.

Si sente nuovamente parlare della Ruota degli esposti, istituzione a molti sconosciuta: nei secoli XIV-XV consisteva di un giaciglio solitamente posto al di fuori dei conventi, degli ospedali o degli orfanotrofi che consentiva di abbandonare alle cure di quell’istituto, in modo legittimo ed anonimo, la creatura che non si intendeva allevare (ve n’è traccia a Trieste ancora oggi su una delle facciate dell’Ospedale Maggiore, risalente al 1841, ove compare la seguente iscrizione “trascrivere “ndr). Un ritorno al passato potrebbe essere un progresso?

 “E’ innegabile che siamo al paradosso, quello che si dovrebbe fare è cercare di aiutare la madre e sostenerla nella propria decisione di maternità o di rinuncia consapevole di essa.

Nel secondo caso, il gesto va sicuramente apprezzato e supportato: le donne ancor oggi si vergognano di accettare che il proprio figlio possa essere allevato altrove, l’atto di rinuncia, se non si è in grado di allevare il bambino, non equivale all’abbandono, significa dare la vita e permettere di viverla. Se può servire, ben venga la re-istituzione della ruota, ma è altresì importante far sapere che non è necessario partorire in clandestinità, si può mettere al mondo un figlio con gli aiuti adeguati e successivamente rinunciare a crescerlo. Il fatto che la maternità biologica sia sacra fa parte di una concezione arretrata e le conseguenze dei riconoscimenti imposti dagli ospedali oppure dagli istituti religiosi spesso portano a situazioni di adottabilità tardive e drammatiche tanto per la madre quanto per il figlio.

Perciò è fondamentale creare una rete sociale di sostegno”.

Le ragioni dell’abbandono o dell’infanticidio dettate dall’ignoranza e dalla miseria dei tempi passati sembrano più tollerabili di quelle odierne che spingono una madre ad uccidere il proprio figlio. Secondo lei può essere responsabile la cultura del contesto storico in cui il dramma si sviluppa o sono (specialmente quelle odierne) situazioni da affrontare singolarmente?

Che differenza c’è giuridicamente fra abbandono ed infanticidio e che differenze di pena ci sono per le madri che commettono questi reati?

 “Ogni caso è a sé e va comunque collocato all’interno del contesto culturale dell’intera comunità. Giuridicamente, l’abbandono di un minore o di un incapace da parte di chi ne deve avere cura è un reato; va da sé che l’infanticidio è un reato ben più grave ed entrambi sono punibili con pene proporzionate alla gravità del fatto secondo le norme dettate in materia dal codice penale. Va sottolineato il concetto civilistico dell’abbandono: la legge consente di abbandonare un figlio rinunciando al suo riconoscimento nel pieno anonimato, senza che si configuri un reato punibile nei termini di legge, lasciandolo in luogo sicuro, consentendo l’adozione e garantendogli così un futuro di sopravvivenza in un ambiente familiare idoneo”.

 

Marina Galdo
socio fondatore e membro consiglio direttivo SPES (solidarietà per l’educazione allo sviluppo)

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