I trapianti: risvolti etici e culturali

Ha affermato Papa Giovanni Paolo II nel 1991, ai partecipanti al Primo Congresso Internazionale “World Cooperation in Transplation” della Society for Organ Sharing: “Tra le molte importanti conquiste della medicina moderna, i progressi nel campo dell’immunologia e della tecnologia chirurgica hanno reso possibile l’impiego terapeutico degli organi e i trapianti di tessuto. E’ giustamente motivo di soddisfazione che molti malati, che fino a poco tempo fa potevano solo attendersi la morte o, nel migliore dei casi un’esistenza dolorosa e limitata, possano adesso guarire più o meno completamente grazie alla sostituzione di un organo malato con quello sano di un donatore. Dobbiamo rallegrarci che la medicina, nel suo servizio alla vita, abbia trovato nel trapianto di organi un nuovo modo di servire la famiglia umana, e proprio tutelando quel bene fondamentale della persona. Con l’avvento del trapianto di organi, iniziato con le trasfusioni di sangue, l’uomo ha trovato il modo di donare parte di sè, del suo sangue e del suo corpo, perché altri continuino a vivere. Grazie alla scienza e alla formazione professionale e alla dedizione di medici e operatori sanitari, la cui collaborazione è meno ovvia, ma non meno indispensabile per il superamento di complessi interventi chirurgici, si presentano nuove meravigliose sfide. Siamo sfidati ad amare il nostro prossimo in modi nuovi; in termini evangelici, ad amare “sino alla fine” (Gv 13,1) (Giovanni Paolo  II, 1989).

Nell’ambito delle valutazioni del Comitato Nazionale di Bioetica si è affermato che “l’espressione certa e pubblica della volontà di donare sarebbe bene fosse effettuata in vita e mentre si è in buona salute”. Il che vale a dire al più presto, per esempio all’età di 16 o 18 anni e con modalità di “registrazione” de definire, quale ad esempio il silenzio-assenso, oggetto attualmente del dibattito legislativo. Silenzio-assenso significa cioè che chi non nega la volontà di donazione in vita può essere automaticamente sottoposto ad espianto di organi dopo la morte.

E’ allora evidente che il trapianto si pone in una logica di donazione; si tratta di un gesto di solidarietà, di un dono supremo, al di là della morte, fatto ad un ammalato sconosciuto, che pone la sua ultima speranza in un trapianto.

Se pure può sembrare scontata la liceità di un trapianto eseguito e motivato al fine di prolungare la vita di un malato grave, non altrimenti curabile, tuttavia esso presenta interrogativi di ordine etico, nell’ambito del rapporto tra natura biologica (il corpo), tecnologia e persona umana.

Per quanto attiene la volontà di donare che si esprime, si deve affermare che quando l’espianto viene fatto da donatore vivo, come nel caso di tessuti o di organi doppi (reni), l’obbligo del consenso informato riguarda anche il donatore e riguarda tutte le conseguenze sulla salute e sulle capacità lavorative future del donatore. Non potrebbe esserci un atto di donazione, espressione di solidarietà, se non ci fosse una consapevolezza motivata di tutte le conseguenze del gesto.

Quando l’espianto avviene da  cadavere, la tendenza giuridica è portata a considerare il cadavere come res communitatis e a favorirne la utilizzazione per il bene comune tutte le volte che si presenti la necessità di tipo sociale e tutte le volte che non risulti una volontà contraria del soggetto donatore espressa mentre era vivo.

Questo criterio non risulta condiviso da tutti gli autori sotto il profilo etico, tenendo presente che il cadavere, pur rimanendo res e non più persona, conserva una sua sacralità per il riferimento fenomenologico e psicologico che ha nei superstiti. Perciò, se rimane vero che l’utilità del bene comune può giustificare alcune operazioni di carattere igienico- sanitario, non si deve escludere completamente il suo legame di appartenenza affettiva da parte dei superstiti. Pertanto il riguardo alla volontà stessa del soggetto e, dove è possibile , l’informazione e il riguardo anche della volontà dei superstiti hanno e conservano un peso di ordine etico. L’utilità pubblica che può richiedere dei sacrifici anche ai vivi, può richiedere delle manipolazioni e dei prelievi sui cadaveri – senza ormai danno alcuno per la vita – ma non cessa con questo il rispetto che si deve a questa res che ha una relazione psicologica con la persona (Sgreccia, 1994).

Questo primato della persona si impone e costituisce la premessa di un lecito trapianto di organi. Infatti una delle prime preoccupazioni etiche è proprio quella del rispetto della dignità della persona del donatore. E’ per questo che non tutti gli organi sono eticamente donabili. Dal trapianto vanno esclusi l’encefalo e gli organi sessuali, che assicurano identità personale e procreativa della persona. Si tratta di organi in cui prende specificamente corpo l’unicità inconfondibile della persona, che la medicina è tenuta a tutelare (Pontificio consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, 1994).

D’altra parte, è necessaria la certezza di essere in presenza di un cadavere e quindi è indispensabile il rispetto scrupoloso delle norme per l’accertamento della morte. Per questo si è stabilito il criterio di morte cerebrale, che deve essere stabilita con regole precise; con morte cerebrale non si intende solo la morte corticale (cioè della corteccia cerebrale, responsabile della vita di relazione e della vita cosciente), ma si richiede anche la cessazione definitiva delle funzioni della parte interna del cervello e del tronco cerebrale, responsabili, fra l’altro, della respirazione e della circolazione del sangue. Questa constatazione significa non solo che la persona non può riprendere conoscenza, ma anche che le sue funzioni fisiologiche sono cessate definitivamente.

La richiesta di consenso, attualmente rimane una questione delicata. Tale richiesta può essere spesso un fatto più traumatico che un presunto consenso generalizzato: la richiesta fatta ai parenti del defunto ha spesso un impatto psicologico maggiore rispetto alla consapevolezza dell’accettazione di una norma sociale che è volta alla tutela di una possibilità di vita.

Infatti si è affermato che, poiché la maggior parte dei pazienti visti come possibili donatori è deceduta per un evento traumatico ed è più giovane della maggior parte degli altri pazienti che affronta la morte, tali persone non hanno generalmente pensato molto, se pure ci hanno pensato, alla donazione di organi. La famiglia si trova in un momento di dolore e di perdita, e discutere la donazione pochi momenti dopo la morte è, in genere, un’esperienza drammatica, soprattutto in assenza di una normativa. Si può citare, a questo proposito, come la richiesta di autopsia, anche se parimenti traumatica, trova una diversa accettazione psicologica proprio per la sua obbligatorietà a norma di legge (Crepaz, 1996).

E’ indubbio inoltre che la richiesta del consenso pone questioni delicate e implica ulteriori problematiche quali quella dell’assistenza che ricevono i congiunti al Pronto Soccorso di un ospedale, reparto dove il rapporto medico-paziente-congiunti è occasionale ed improvviso ed avviene in un clima drammatico.

Infine si può ancora notare come possano esserci anche ostacoli di carattere psicologico alla concessione del consenso da parte dei congiunti. I soggetti clinicamente morti infatti, dopo l’accertamento del decesso, se sono previsti per l’espianto, continuano ad essere mantenuti meccanicamente nelle funzioni puramente fisiologiche dando l’impressione, ai congiunti, di trovarsi di fronte a persone in vita: il cadavere appare con il cuore battente, una temperatura corporea mantenuta normale, il torace che si solleva e si abbassa grazie alla respirazione artificiale. Nell’insieme è una immagine che non evoca la morte, che è tradizionalmente associata alla staticità e alla freddezza.

Ma ancora altri fattori emotivi possono condizionare l’atteggiamento dei congiunti. In primo luogo la credibilità del medico, la fiducia in lui, la confusione suitermini (morte cerebrale, coma, possibilità di ripresa, ecc.), la paura di prendere una decisione. A questo si può aggiungere il “senso” di colpa dei genitori: sensi di colpa irrazionali, quali quelli di non aver protetto sufficientemente il figlio, pongono dubbi sull’assenso al prelievo per la paura di infliggere al figlio una ulteriore sofferenza. Ancora, infine, incidono le critiche che spesso i parenti meno prossimi rivolgono a chi ha preso la decisione.

In conclusione, si può affermare che il problema principale del consenso per la famiglia del donatore è il peso psicologico di una decisione impegnativa per il carico di valori e di “innovatività” rispetto alla cultura tradizionale (Crepaz, 1996).

Ma complessi, e in gran parte di natura relazionale, sono anche i problemi che si incontrano nell’équipe dei reparti di rianimazione: si riconosce una difficoltà oggettiva a chiedere il consenso al prelievo per il fatto di “chiedere per altri” in un momento in cui il dolore tende ad isolare i familiari del potenziale donatore.

D’altra parte, la mancanza di un’efficacia terapeutica delle cure prestate al paziente che sta morendo può provocare un allontanamento psicologico del medico, che non “sa” più prendersi cura di lui e nel distacco accomuna anche la famiglia. Inoltre, alla morte del paziente, il desiderio di “archiviare” il caso e il possibile inconscio senso di colpa per l’esito infausto rende, nel medico, la prospettiva del prelievo di organi ancora più difficile se questa non è prevista come prassi.

Si riscontra anche qui, allora, l’incapacità di un sistema assistenziale che ha la preoccupazione di “curare per guarire”, ma non sa “prendersi cura” nella globalità di un paziente e della sua famiglia.

In molte nazioni nelle quali i trapianti sono entrati, potremmo dire, quasi nella routine dell’attività sanitaria, si sono realizzati e si realizzano corsi di formazione e di aggiornamento specifici, tecnici ed etici, per le équipe sanitarie interessate in questo tipo di urgenza sanitaria.

In ultimo, se pur in estrema sintesi, si deve anche considerare la persona di chi riceve un organo. “Svegliarsi, resuscitare con la parte del corpo di un altro, obbliga ad indagare sulla propria identità” (Degos, 1997).

Il debito nei riguardi del donatore, la sua ricerca – simile solo alla ricerca di un parente sconosciuto – la sensazione di un “altro” dentro di sè, i sentimenti cambiati, a volte devianti, possono tormentare la vita del trapiantato.

L’organo trapiantato potrebbe essere considerato come un oggetto, una macchina in sostituzione della propria, diminuendo così la carica affettiva e il senso di intrusione, ma quest’organo trapiantato non è un oggetto, non è monetizzabile, e il diritto lo colloca dalla parte dell’essere umano. L’organo trapiantato è vivo, ha una funzione vitale. E’ certamente un organo altrui, ma non è neanche come avere l’altro dentro di sè. Il sè sempre presente: identico o modificato?

Ma ancora, la paura dell’insuccesso, la dipendenza dall’organo altrui, gli esami che si ripetono, la sorveglianza stretta dei medici condizionano il malato.

Questa atmosfera determina due atteggiamenti opposti che possono manifestarsi in successione nella stessa persona: il primo si rifugia dietro la tecnicità, il secondo esalta il risultato della ricerca, come un’immagine nello specchio della duplicità dello spirito razionale e di quello di scoperta del chirurgo che ha effettuato il trapianto. La paura di un’insufficienza, l’angoscia che tutto si fermi, il bisogno di verificare e di ritornare senza sosta all’ospedale possono portare il paziente a vivere come in un bozzolo e a non lanciarsi nella vita attiva. Altri al contrario vi si tuffano, riprendono il proprio lavoro e descrivono il proprio caso come un esempio, eroi e testimoni viventi dei risultati della medicina moderna e della ricerca scientifica (Degos, 1997).


Prof. Massimo Petrini
Università Cattolica del Sacro Cuore

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