Intervista a Pino Roveredo

“Così comincia il degrado volontario, quando la società allunga benevolmente la mano e ti mette da parte, tu lo sai che è colpa tua, ma quell’emarginazione con il tempo diventerà un alibi da giocare”. E’ così che nel suo primo libro, “Capriole in salita”, lo scrittore triestino Pino Roveredo descrive il disagio. Un disagio di cui è stato per vent’anni protagonista diretto, e che lo ha violentemente trascinato nel mondo dell’autodistruzione dell’alcool, del carcere e dei ricoveri nell’ospedale psichiatrico. Un disagio che, dopo innumerevoli battaglie, è riuscito a debellare e a rielaborare come momento di rimotivazione per riprendere la strada, aiutato dall’amore di sua moglie e dei sue tre figli. Un disagio, ancora, che è riuscito a convertire in un’occasione per capire ed aiutare quelle persone che nella vita registrano un’infinità di sconfitte.

“Nasco da una famiglia di sordomuti”, inizia a raccontarsi Pino, “e siccome eravamo molto poveri io e mio fratello fummo portati in un collegio, che altro non era che l’Ente Comunale di Assistenza di Trieste. Eravamo circa trecento bambini, obbligati ad una disciplina veramente ottusa, che usava come linguaggio il linguaggio delle mani: ritroverò negli anni successivi il 75-80% di questi bambini in carcere o nei ricoveri psichiatrici o nei funerali, a dimostrare che la violenza sui ragazzi paga in una maniera molto dura. Uscito dall’Istituto fui inebriato dall’improvvisa libertà e molto velocemente mi buttai, anche per la mia fragilità, nell’uso e nell’abuso dell’alcool: le birre della domenica diventarono il vino del lunedì e le grappe del martedì, e così avanti. A 17 anni il primo ricovero psichiatrico, con le bastonate, i letti di contenzione e le camicie di forza: tutto questo faceva parte dell’ordinario percorso dell’allora alcoolista, del tutto simile poi a quello del tossicodipendente; poco dopo entrai in carcere, e da lì intrapresi il percorso prestabilito di chi rinuncia a vivere”.

L’ancora di salvezza nelle mareggiate di infiniti episodi di violenza fu la comunicazione, resa possibile dalla scrittura. “Spesso mi presento a degli incontri o a dei convegni” spiega Pino, “raccontando del salvarsi con la scrittura: credo che questa realtà che ho vissuto in prima persona valga anche per molti ragazzi di oggi, che non hanno nessuno con cui comunicare e si parlano da soli, scrivendo. La scrittura, per me, è sempre stata strettamente legata al linguaggio dei gesti e all’attenzione negli sguardi che imparai dai miei genitori prima dell’uso della voce. Ma specialmente è stata il filo che mi ha tenuto legato alla vita, permettendomi di non rimanere mai solo”.

Il primo libro trova occasione in un preciso episodio della vita di Pino: il suo ruolo di scrittore, infatti, è sempre arrivato direttamente dalla vita vissuta, tanto che lui si considera molto poco scrittore ed assai più operaio della penna. “Uno dei miei figli”, continua Pino, “aveva un problema alla spina dorsale ed aveva bisogno di un busto ortopedico che l’azienda sanitaria doveva fornirgli, solo che i tempi si allungavano troppo cosicché io, arrabbiatissimo, una notte scrissi una lettera a Maurizio Costanzo. Il quale due giorni dopo mi chiamò invitandomi a fare da ospite per il suo programma e, colpito dal mio modo di scrivere, mi consigliò per primo di pubblicare un libro: da quel consiglio nacque “Capriole in salita”. La storia della collaborazione con Maurizio Costanzo, poi, si chiuse due settimane prima di andare a Roma a presentare il libro: in una puntata del suo show si era presentata una persona molto povera, ed a lui era venuta l’idea geniale di girare tra il pubblico con un cestino raccogliendo dei soldi per l’ospite, mentre veniva inquadrato… io, che queste umiliazioni non le consento, gli scrissi una lettera piena di insulti, e così non fui mai più invitato alla trasmissione. “Capriole in salita”, ora, sta vendendo moltissimo e solo nel 2004 ho ricevuto un centinaio di lettere sul libro; ma il frutto più bello di questo lavoro è il fatto che sta girando nelle comunità nelle sezioni di alcoologia come libro che, se non può cambiare la vita, può certamente stimolare la riflessione”…

E del servizio nei confronti di chi vive il disagio da cui lui stesso è riuscito col sudore a risollevarsi, dell’aiuto nei confronti di chi si trova, per colpa o per sfortuna, a fare i conti con l’emarginazione, Pino ha fatto in questi anni un altro motivo di vita. “E’ molto importante”, sostiene Pino, “dimostrare ai ragazzi che tutti abbiamo ancora a disposizione un’ultima possibilità per cambiare la nostra vita. Io stesso ho quasi toccato il delirium tremens, che è l’ultima tappa prima della morte, eppure sono riuscito a risollevarmi. Ad un certo punto della mia vita, poi, sono diventato ad esempio Capo coordinatore dell’Agenzia comunale delle tossicodipendenze in Comune: anche questo può insegnare che nessuno è già segnato”.

Ma la forma di lavoro con i ragazzi prediletta da Pino è senz’altro il teatro. “Ho lavorato molto con i ragazzi del carcere”, racconta al proposito Pino, “che hanno interpretato al Politeama Rossetti il mio testo teatrale “La bela vita”, un atto unico su una giornata in carcere. E’ stata la prima volta in cui i ragazzi sono usciti, ed il teatro era pieno anche per la curiosità della gente di vedere i detenuti. Da lì è nato il mio grande innamoramento per il teatro, che può diventare una terapia per chi lo scrive e per chi lo fa, e che mi ha portato a bellissime collaborazioni anche con i ragazzi del SerT (Servizio Tossicodipendenze) e con “I ragazzi della panchina”, un’associazione di ragazzi sieropositivi di Pordenone. Con loro abbiamo realizzato uno straordinario monologo, molto ironico ma molto duro, imperniato sul fatto che i ragazzi che hanno l’AIDS hanno il “privilegio di essere trattati con i guanti bianchi”… Questi spettacoli sono stati portati nelle scuole dove siamo sempre stati reclamati a gran voce, forse anche perché noi non spieghiamo ma raccontiamo: abbiamo parlato di disagi con il rap o con la breakdance, strumenti che ci hanno consentito di portare in certi ambienti argomenti anche molto delicati o considerati sconvenienti”.

Ed a questo proposito Pino si inoltra in una questione annosa, ma pur sempre  scottante: la tendenza dalla società in cui viviamo a nascondere la testa sotto la sabbia di fronte alle realtà difficili, la tendenza a non voler trovare davvero una soluzione per le situazioni di disagio, perché forse è meglio servirsene come capro espiatorio. “Mi viene in mente”, testimonia Pino, “il pensiero di un sociologo svizzero che sosteneva che se domani, per miracolo, sparisse tutto il disagio, sarebbe un dramma mondiale. E’ convinzione non solo mia, ma anche di don Ciotti e di parecchie altre persone che si occupano del sociale, che più che puntare ad una guarigione si punta ad un mantenimento dei problemi. Pensiamo ad esempio all’AIDS: ci sono dei numeri che dovrebbero sconvolgere, ed invece sconvolgono solo il primo dicembre, in occasione della “Giornata mondiale contro l’AIDS”. In una recita fatta a Napoli con i ragazzi abbiamo ricordato che in ognuno dei sessanta minuti di spettacolo in Africa un bambino è morto di AIDS: e questa frase inserita nella rappresentazione sortisce un certo effetto. In un’altra opera, dopo un monologo molto arrabbiato che un ragazzo che nello spettacolo alla fine muore di AIDS scaglia contro chi non è stato solidale con lui, entriamo tutti in scena e lo baciamo, e poi scendiamo tra il pubblico: è sconvolgente vederne la reazione, il pubblico inizialmente rimane allibito, ma poi, come è successo con la rappresentazione a Napoli, sfocia tutto in un abbraccio collettivo”.

 

Martina Seleni.

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