Una combinazione di confini, reali e immaginari

Igor Jelen

In questo Paese le forze della geopolitica si sono periodicamente scontrate. L’ultima volta è capitato vent’anni fa

Il ponte di Mostar ricostruito dopo la guerra

Il ponte di Mostar ricostruito dopo la guerra

Non esiste un’immagine più lontana dalla guerra di quella del quieto paesaggio della Bosnia e della sua cultura rurale e popolare, un vero e proprio tesoro etnografico.
Boschi di conifere, torrenti, e forre spettacolari, montagne e cime rocciose, paesetti lindi e pittoreschi, in un’alternanza di minareti e campanili, ponti in pietra e castelli ottomani, isbe di blockbau e “planine” a perdita d’occhio. L’entroterra della costa dalmata, di cui la Bosnia rappresenta una sorta di versione montana, è un ininterrotto susseguirsi di paesaggi incontaminati, cui si alternano testimonianze culturali e città storiche.
Tra queste Bihać, a pochi chilometri da Plitvice. Con il suo parco sul fiume Una, frequentato solo da pochi turisti d’elite (che si aggirano con zaini e biciclette tra le cascate di una valle meravigliosa), offre emozioni uniche.
Quindi Mostar, sulla Neretva, con il suo ponte, il più famoso dei tipici ponti in pietra della Bosnia, che superano valli e fiumi dal corso tormentato ed hanno sempre segnato nella storia qualche confine – tra Impero romano d’oriente e d’occidente, Greci e Latini, Slavi e Veneziani, Asburgo e Ottomani, Cristiani e Musulmani.
E, ovviamente, Sarajevo, la capitale, con la sua biblioteca, unica nel suo genere, appena restaurata e restituita alla civiltà dopo le distruzioni provocate dalla guerra di vent’anni fa. Un luogo straordinario, nel quale è bello indugiare nelle čajkane sorseggiando the russo e caffè alla turca, liquore di miele (la “medica”) e slivovka, il simbolo stesso della Bosnia (dalle famose “slive”, le prugne secche). E dove è possibile trovare sui banchetti dei bazar, tra tanti souvenir per turisti frettolosi, oggetti “cult” delle varie epoche e dei vari strati culturali che caratterizzano il paesaggio della città (dal fez alla “titovka”, tutte le patacche possibili dall’epoca degli Ottomani, agli Asburgo, alla Jugoslavia socialista).
Luoghi dall’apparenza idilliaca, nei quali tracce di Oriente e di Occidente si mescolano in un delicato esotismo, ma dove, a ben vedere, è ancora possibile notare qualche traccia inquietante di guerre antiche e recenti (segni di proiettili sugli edifici, rovine di case bombardate e non ricostruite, fattorie abbandonate da fuggiaschi di qualche etnia o religione) che fanno pensare ad una storia diversa.
In realtà, la Bosnia è il luogo in cui le forze della geopolitica sembrano periodicamente scatenarsi, un fatto che si ripete varie volte nella storia, fino ad epoca recente, quasi a segnare un tragico destino per un luogo dove la guerra sembra ripresentarsi puntualmente, come ad un appuntamento. Un
destino che ritorna: ogni volta, finita una guerra, celebrati funerali, onorati eroi e veterani, vendicate vittime e rifocillati i profughi – le vere vittime di una guerra senza fine – la vita deve ricominciare daccapo, come a significare che la guerra non risolve nulla, come se fosse solo un macabro rituale.
La cordiale atmosfera di oggi, con una popolazione che sembra tutta impegnata ad accogliere gli ancora pochi turisti, può sembrare fuorviante, ma è, invece, abbastanza comprensibile: nessuno è così propenso a rimuovere la sofferenza e a godersi la pace come chi ha appena vissuto l’esperienza di una guerra. La memoria è a volte difficile da accettare: queste città e queste valli sono luoghi nei quali tutti, da sempre, si fanno la guerra. Un’affermazione che vale per molti o tutti i luoghi dell’ecumene, ma che qui assume un significato ancora più forte.
Analizzando la carta geografica, studiando le fonti, la storia e la sociologia, non si riesce a capire perché la guerra in Bosnia si ripresenti così spesso e ad intervalli quasi regolari – circa ogni seconda generazione – come se, dopo una generazione, la gente si dimenticasse che cosa significhi la guerra. Forse perché la regione tra i fiumi Una, Neretva e Drava rappresenta la classica area cuscinetto senza importanza (o con troppa importanza) o, al contrario, perché si tratta di una frontiera strategica (ma per chi?); forse perché è una periferia remota – seppure al centro dell’Europa! – in cui non c’è nulla di così importante che non si possa distruggere senza scrupoli; o, forse, perché è la frontiera in cui le potenze si fanno una guerra che altrove sarebbe troppo costosa, in termini di distruzioni, rischio di perdere risorse, ecc.
Forse perché è sede di vie di traffico di importanza strategica, forse perché non c’è niente di tutto questo – a parte gli itinerari delle carovane che dalla costa trasportavano il sale verso l’interno, e gli itinerari dei pastori semi nomadi che dalla Valacchia colonizzavano questi poveri altopiani carsici, risalendo i Balcani fino alla mitica terra di Ciceria, alle porte di Trieste e di Fiume. Così ai tempi della frontiera militare – nei secoli dell’Impero ottomano – quando gruppi di Cristiani serbi, per sfuggire agli eserciti turchi, si trasformano in acerrimi nemici degli stessi, da contadini in guerrieri, impegnati nell’allestimento di una Militärgrenze per conto degli Austriaci. Gli stessi che poi – nell’800 – daranno origine ai movimenti anti-Austriaci che organizzeranno l’attentato di Sarajevo (l’inizio di una nuova “fine”). Nel ‘900 la storia si ripete, ma, se possibile, con ancora maggiore tragicità. La Bosnia è il luogo dove nasce e si diffonde un imponente movimento partigiano, capace di bloccare fino a 10 divisioni tedesche: il primo movimento di resistenza che si forma nell’Europa invasa dalle forze dell’Asse, già nel ’41, quando sembrava che non ci fosse più speranza per niente e nessuno, quando tutti se ne stavano ad aspettare quasi paralizzati dalla paura, sperando che qualcuno arrivasse a liberarli da un incubo sterminatore.
Ed è il caso, alla fine della Jugoslavia, negli anni ’90, dell’ultima (si spera) guerra di sterminio sul suolo europeo, ancor più feroce, si presume perché ancora più forte era le delusione per la fine di un ideale: l’utopia dell’autogestione e dell’uguaglianza tra popoli e classi – in uno Stato che da tempo era una sorta di carrozzone senza regole e pieno di debiti – che aveva significato anche la speranza di aver superato le cause di un’antica rivalità tra etnie, ideologie e religioni.
Una serie di eventi, movimenti e, semplicemente, di casualità che portano alla formazione di una mappa complicata, senza alcuna logica, con insediamenti serbi che si collocano all’interno di aree compattamente croate, a loro volta collocate in aree musulmane e viceversa, senza considerare tutte le altre minoranze: una sorta di rompicapo etno-politico. In realtà, non esiste una teoria che possa spiegare compiutamente le ragioni di questa situazione ciclica che caratterizza quasi in modo caricaturale la Bosnia, e con essa molte altre regioni che soffrono endemicamente della guerra, come se fossero condannate a subire un destino.
Qualcuno teorizza di geo-politica e interessi economici, bio-potere e odio come “propensione” naturale, paura per l”altro” e fallimento dei codici di comunicazione; qualcuno cita antichi dissidi tra comunità rurali che si perpetuano in guerre moderne o la tendenza di super-potenze esterne allo scenario – Turchi, Austriaci, Russi, Americani – a manipolare la popolazione locale e a cercare aree deboli in cui condurre le proprie guerre e i propri esperimenti strategici: tutte teorie che sembrano, anch’esse, perdere periodicamente significato e degenerare in mera retorica.
Così per la teoria della distanza culturale, ritenuta da certi autori la causa essenziale di un conflitto che diventa “endemico”, cioè caratteristico di una certa area: una terra con “6 Repubbliche, 5 etnie, 4 religioni, 3 lingue, 2 alfabeti, una Nazione” come recitava lo slogan jugo-socialista, in cui elaborare un linguaggio, imporre una politica o sviluppare dei valori comuni sembra impossibile. Una teoria inconsistente in un mondo in cui il mescolamento è la regola, in cui le differenze di cultura, religione, ecc. non rappresentano – almeno non più di altre – un motivo originario di conflitto. Come la cronaca geo-politica sembra dimostrare, anzi, gli Stati più solidi sono propri quelli fondati su un’idea di “melting pot” e diversificazione in tutti i sensi. Il mescolamento è da sempre una realtà, almeno da quando esiste l’essere umano e da quando gli esseri umani hanno imparato a produrre e scambiare cultura e ad elaborare istituzioni e codici per immunizzare l’odio e le tensioni che la vita in comune produce periodicamente. Anzi, forse si può affermare che più una società è evoluta, maggiore è la sua capacità di elaborare e adattare istituzioni e codici ad un set di valori civili in grado di evitare il rischio del conflitto (anche se le trasformazioni che la realtà produce continuamente, in particolare oggi, con la globalizzazione, si sviluppano con velocità forse troppo elevata per poter essere adeguatamente assimilate dalle popolazioni e dalle istituzioni).
Qui sembra che la diversità sia diventata più spesso il pretesto per imporre confini e categorie, mai come in questo caso artificiose, che si sovrappongono su una realtà a “macchie” che sfugge a qualsiasi teoria del confine perfetto (naturale, ideale, etnico, economico, ecc.). Confini contorti, che si intersecano a tal punto da rendere impossibile anche solo pensare a qualche soluzione ideale o, almeno, condivisa, e che danno origine a configurazioni incoerenti, salienti ed enclave, corridoi “etnici”, varianti locali e “minoranze delle minoranze”. Un quadro caratterizzato da discontinuità, nel quale si instaurano relazioni di dipendenza tra città e aree di campagna, industria e agricoltura, filiere di approvvigionamento e infrastrutture.
Un intreccio di confini e un’alternanza di popolazioni e culture, bacini di economia e sistemi di governo che, in un certo senso, rendono evidente la necessità di elaborare un criterio di collaborazione – se non al rischio di regredire a una sorta di medioevo, con comunità che sopravvivono di economia rudimentale, isolate e in guerra tra loro – predisponendo di per sé all’integrazione. Una situazione che, in realtà, ha un’unica soluzione, per quanto paradossale: il superamento di un modo di organizzazione basato sui confini. Una consapevolezza che rende necessaria l’elaborazione di un nuovo schema e di un nuovo modo di pensare alla geografia.

Igor Jelen
Professore associato di Geografia politica ed economica presso l’Università di Trieste,
e visiting professor all’Università di Innsbruck

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