Troppe riforme, poca chiarezza

di Matteo Cernigoi

Alla quarta riforma del lavoro negli ultimi due anni, continuano ad esserci molte perplessità sulla rappresentazione del mondo del lavoro, e delle sue regole, promossa dai governanti. Il risultato continua ad essere la tensione sociale nonché uno scarto di lungimiranza

Quattro riforme del lavoro negli ultimi due anni. Un vero e proprio record, se paragonato ad altri sistemi giuslavoristici europei. L’ultima, il c.d. “Jobs Act”, voluta fortemente dal Governo di Matteo Renzi, porta con sé obiettivi ambiziosi ed alquanto controversi, a tratti fortemente discutibili, che stanno iniziando lentamente a prendere forma nel nostro sistema, scatenando perplessità per la nevrosi con cui si sta affrontando una tematica non risolutiva per l’andamento dell’economia italiana, la demolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Senza contare che l’unica vera riforma da farsi, per rendere giustizia a milioni di Italiani scippati e rapinati del proprio futuro, è l’abrogazione della Legge Fornero in materia pensionistica, ma che sicuramente tarderà ad arrivare o, forse, non arriverà mai.
Questo perché all’attuale Governo manca uno specifico piano d’intervento per la nostra economia, sempre più succube di un’Europa irriconoscibile, votata esclusivamente alla salvaguardia dei bilanci pubblici per non compromettere le grandi banche (e dell’uomo, chissenefrega…) e che, per semplicità, ha preferito intervenire sul lato dei singoli istituti giuslavorativi piuttosto che ricercare soluzioni di politica economica condivise atte a rilanciare l’economia interna. Come? Risolvendo concretamente annosi problemi quali l’eccessivo costo del lavoro, non determinato da enormi differenziali tra la retribuzione netta percepita dal lavoratore ed il relativo costo complessivo sostenuto dal datore di lavoro, le continue problematiche energetiche ed infrastrutturali, l’eccessiva pressione fiscale, la malaburocrazia fine a se stessa, la corruzione, l’impossibilità di accedere al credito, la lentezza della giustizia, la scarsa informatizzazione delle istituzioni e delle procedure, spesso e volentieri coperte solo da interventi di facciata e mai risolutivi.
Tornando al nucleo della riforma, senza ombra di dubbio sono tre le questioni che essa tenta di affrontare (ricordiamoci, però, che stiamo parlando del Jobs Act atto secondo) sulle quali va richiamata l’attenzione: le politiche attive del lavoro abbinate alla revisione degli ammortizzatori sociali (preminenza dei contratti di solidarietà rispetto alla Cig; Aspi collegata all’effettivo stato di disoccupazione), la semplificazione e la revisione dei contratti, con l’introduzione del contratto a tutele crescenti e, come accennato sopra, la revisione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. In abbozzo, invece, un primo tentativo di riduzione del carico contributivo, in favore dei datori di lavoro, con le nuove assunzioni.
Per dovere di cronaca, è bene ricordare che l’atto primo del Jobs Act, varato a marzo dello scorso anno, ha già modificato ed integrato, per l’ennesima volta, alcuni contratti di lavoro già esistenti nel nostro sistema (contratti a tempo determinato e apprendistato, creando, così, le condizioni per un precariato “a vita”) ed introdotto alcune novità (più procedurali che altro) in tema di rilascio del DURC e contratti di solidarietà.
Da tenere presente che il contesto in cui si sta muovendo la riforma non è certamente neutro, ma caratterizzato, da una parte, dall’alto tasso di disoccupazione (media oltre il 13% e giovanile oltre il 47%) e, dall’altro, dal processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro iniziato con la riforma Fornero, per quanto riguarda i licenziamenti, e con il decreto Poletti (D.L. 34 del 21 marzo 2014 convertito nella L. 78/2014) in relazione ai contratti a termine acausali. Se sommiamo a tutto questo il preannunciato fallimento della “Garanzia Giovani” (non basta creare un portale condiviso per l’iscrizione dei giovani, occorre creare un concreto link con le aziende per offrire opportunità di stage e tirocini ed iniziare a gettare le basi per interventi di orientamento) ci ritroviamo a discutere di “mercato del lavoro” in una economia poco fluida ed ingessata rispetto a quella degli altri competitors europei e nord americani. I quali, pur avendo anch’essi normative meno restrittive in materia di assunzioni e di licenziamenti, godono certamente di una minore pressione fiscale e burocratica e di maggiore offerta lavorativa. Ci si chiede, quindi: serviva riformare, nuovamente ed in questo modo, le regole del mercato del lavoro senza entrare nel merito delle scelte di politica economica? Certamente, la risposta può essere tutt’altro che affermativa.
Ma, in concreto, quali sono le reali perplessità che il Jobs Act sta portando nel nostro sistema? In attesa del via libera ufficiale da parte delle Commissioni parlamentari, alle quali è stato affidato il testo del decreto legislativo emanato dal Governo nella seduta dello scorso 24 dicembre, i dubbi interpretativi riguardano quattro argomentazioni.
La prima. Si applicherà anche ai dipendenti pubblici? In attesa di un’interpretazione autentica che il Governo dovrà dare al suo stesso documento, possiamo affermare che, in momento di enti soppressi, in dissesto o in ristrutturazione, è necessario che si faccia immediatamente chiarezza. Non solo per la tutela del singolo lavoratore, ma anche per la gestione delle future contrattazioni sindacali – visto che il Governo ha preferito emanare norme totalmente prive di questa salvaguardia – che, muovendosi in un ambiente normativo incerto, potrebbero creare non solo discriminazioni e disparità, ma anche ricorsi. Di più. Disquisire sulla possibilità o meno di licenziare liberamente il pubblico impiegato in caso di scarso rendimento o di bassa produttività cozza inevitabilmente con il farraginoso sistema delle sanzioni disciplinari e della valutazione, argomento discutibile ed aspramente combattuto già durante la prima riforma Brunetta.
La seconda. Leggendo attentamente la norma, il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti si applicherà ai soli neo-assunti, estendendosi, però, anche ai licenziamenti collettivi.
Questo significherà toccare anche i diritti acquisiti di chi è già assunto? Se passerà questa interpretazione si creeranno situazioni paradossali e discriminatorie, inaccettabili dal sindacato, nei confronti delle due tipologie di lavoratori.
La terza riflessione muove, invece, sui casi dei complessi processi di riorganizzazione aziendale (si pensi, ad esempio, ai grandi gruppi imprenditoriali, ai consorzi ed alle società di servizi in caso di acquisizioni, fusioni, cessioni di rami d’azienda): come verranno gestite le operazioni sapendo che i lavoratori coinvolti andranno incontro alla perdita della tutela prevista dall’articolo 18?
La quarta riguarda il regime differenziato per le aziende con meno di quindici dipendenti. Per loro gli indennizzi rimarranno  una frazione di quelli delle aziende di maggiori dimensioni. Non solo. Se un’azienda aumenterà di dimensione grazie a nuove assunzioni, sarà costretta ad applicare le regole del Jobs Act a tutti i suoi lavoratori, vecchi e nuovi, creando, così, un contesto competitivo disomogeneo. Ipoteticamente, potremmo avere due aziende della stessa dimensione, una, di vecchia costituzione, sottoposta ancora al vecchio regime dell’articolo 18 e l’altra, più giovane o più “furba”, che sottopone tutta la sua forza lavoro al regime del Jobs Act.
Ma questo Jobs Act converrà veramente alla nostra economia e alla nostra società? Sarà in grado di convincere ed attrarre, una volta divenuto operativo, nuovi imprenditori – italiani ed esteri – sul nostro territorio, disposti ad assumere migliaia di lavoratori, scommettendo sulla tenuta di questo sistema economico?
La risposta, per noi, è, purtroppo, assolutamente negativa, con buona pace di quelli che si dimostrano sempre ottimisti. Perché, ottimismo a parte, i dati macroeconomici sono assolutamente incontrovertibili. In una situazione economico-finanziaria così strutturalmente devastata e con prospettive, quantomeno a medio termine, ancor più fosche, non crediamo che il dibattito su come si possa creare lavoro nel nostro Paese debba passare per ragionamenti quali il numero delle proroghe di un contratto a tempo determinato (da otto a cinque?) oppure se nel contratto di apprendistato il piano formativo individuale sia da allegare obbligatoriamente al contratto stesso oppure no, o se sia giusto eliminare l’articolo 18.
Si tratta di discussioni praticamente inutili in termini di reale incentivo allo sviluppo dell’economia o dell’occupazione.
Un dissertare normativo specchio di un diffuso e avvilente pensiero, distorto dalla convinzione che, per rilanciare l’economia, la concorrenza ed i consumi, sia necessario intervenire nei rapporti di lavoro. La continua emorragia normativa e di prassi nelle tipologie contrattuali esistenti risulta, già di per sé, atteggiamento fortemente controproducente e penalizzante per qualsiasi operatore economico, sociale e professionale, soprattutto in questo nostro contesto fortemente concorrenziale con mercati (anche a noi geograficamente prossimi) che sopportano un costo del lavoro nettamente inferiore a quello sostenuto in Italia (in media -75%). Quando, invece, si evita di intervenire nei veri settori che rallentano enormemente il nostro sviluppo e la nostra concorrenza (come, ad esempio, sgravi fiscali e contributivi facilmente accessibili, riduzione concreta del costo del lavoro, semplificazioni amministrative, lotta alla corruzione, miglioramento delle infrastrutture e dei servizi, accesso a credito, istruzione e giustizia), giammai potranno essere ottenuti risultati apprezzabili.
Appare, quindi, lecito porsi il dubbio secondo cui il nostro Governo non comprenda la vera importanza delle questioni o – pur riconoscendole – rivolga altrove, per semplicità, demagogia o sconsideratezza, i propri interventi legislativi. Accapigliarsi sul famigerato, amato, odiato articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, oltre a risultare quasi sempre un’operazione complessa, si risolverà (anzi, si è già risolta) come una misura inconcludente e con effetti del tutto residuali, quando non addirittura controproducenti (vedi Riforma Fornero), se non contrari rispetto all’intervento adottato. Quindi, con una bilancia a saldo assunzioni sempre fissa sul rosso. Ributtandoci, però, nel vortice delle tensioni sociali e della scarsa lungimiranza.

di Matteo Cernigoi
Segretario Generale Ugl F.V.G.

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