Quei conflitti etnici che minano il Paese

Febo Ulderico della Torre di Valsassina

I problemi generati dalla corruzione, dal ritardo sulle riforme e dalla crisi economica si aggiungono ai difficili rapporti tra la componente albanese e quella slava. Le tensioni interetniche diventano un alibi per la classe politica dietro il quale nascondere le mancanze di uno Stato che spesso lascia interi pezzi del territorio in mano alla criminalità

FRONTIERE E CONFLITTI LATENTI TRA MINORANZE ETNICHE
La situazione sociopolitica della FYROM (Macedonia) non è disconnessa dalla storia recente della Regione dei Balcani, nella quale è inserita. Essa presenta, infatti, un quadro generale assai complesso, soprattutto quando l’analisi ha come oggetto la “sicurezza interna” al Paese prevalentemente orientata non ad una soluzione interlocutoria delle problematiche, ma ad una “accorta salvaguardia” delle frizioni esistenti tra i gruppi sociali etnicamente connotati presenti nello Stato. Frizioni o criticità che siano, sono tenute vive nell’interesse dei pochi ai quali è affidato il compito istituzionale di gestire l’instabilità generale e che, comunque, dà modo di mantenere alto il consenso; da tempo immemore questa alternanza di messaggi contraddittori sulla stabilità fa ritenere l’ipotesi di un conflitto interno verosimile, se non ineluttabile.
Andrebbe tenuto in debito conto che vaste aree del territorio della FYROM sono sottratte (sia per la posizione geografica di alcuni villaggi, sia per la difficoltà nel percorrere le vie di collegamento), di fatto, al coordinato controllo della sicurezza statale, ricadendo, invece, sotto la sfera di dominio dell’unica alternativa allo Stato esistente, le bande criminali. Sodalizi che, ormai, non sarebbe azzardato definire storici. La cornice all’interno della quale la FYROM si presenta all’osservatore svela contraddizioni e tipicità di non facile o, quanto meno, non immediata comprensione.
Peculiarità in grado di condizionare la quotidiana gestione della vita.
La presenza e l’operosità di queste organizzazioni criminali è un dato di fatto socialmente accettato e parimenti identificato come l’altra consorteria rispetto a quella che gestisce il potere politico (non meno criminale e non meno pericolosa). In più occasioni viene considerato un fenomeno dato con il quale confrontarsi. La tendenza generale è di far risalire l’esistenza delle variegate forme di criminalità agli assetti assunti dalla Regione Balcanica Centrale durante (o successivamente) i conflitti bellici scaturiti dalla disgregazione della Jugoslavia. Ma gli interrogativi da porre oggi per trovare una risposta alla deriva d’illegalità sembrano essere di altra natura e più profondi.
Nella sommaria identificazione e descrizione delle “frizioni” (l’appoggio di Albania e Kosovo all’UCK macedone e di Bulgaria e Russia al Governo, la presenza di molti profughi kosovari che hanno dato man forte alla componente albanese macedone, il divieto da parte della Grecia di usare il nome Macedonia al posto dell’acronimo FYROM) che hanno portato la FYROM all’isolamento e alla scelta di una soluzione armata ai “problemi” politici interni nel 2001, non viene, però, menzionata quale fosse l’istanza della componente etnica albanese (almeno il 22% della popolazione).
Delegando la parola all’esercito e alla guerriglia albanese (definita, a più riprese, terrorista o ribelle) di cui l’UCK si fece interprete, la scelta evidente fu quella di poter contare sull’ingerenza esterna della Nato, il cui compito era quello di far cessare le violenze e permettere l’effettiva partecipazione e l’effettiva integrazione della componente albanese macedone nelle istituzioni del Paese come elemento di stabilizzazione e pacificatore. Alla comunità albanese, quindi, non bastava (e tuttora non basta) una formale attestazione di esistenza, ma la determinazione a vedersi riconosciuti come componente costituente della Repubblica di Macedonia a nazionalità composita; un obiettivo ambizioso, ma non tale da giustificare la guerra civile. In questo caso, ci si vuole limitare a porre l’accento su un dato importante al tempo trascurato e tralasciato da molte fonti, un particolare storico che fornisce un angolo prospettico dal quale compiere l’analisi, più accurata e rispettosa dei fatti, del panorama geopolitico che connota ancora oggi questa regione.
Bisogna far sapere, infatti, che l’UCK coinvolto negli scontri non è quello kosovaro, bensì una compagine resistente autoctona con lo stesso nome. Ancora oggi in pochi ne sono a conoscenza e ciò che resta nella memoria collettiva è la pretesa di una popolazione ad essere considerata nelle decisioni locali come forza interlocutoria e della cui volontà il Governo deve tenere conto.
Se non stessimo parlando dei Balcani, ci si potrebbe limitare a costatare che si tratta di una condizione esistente in molti Paesi dell’Europa Occidentale e che costituisce un diritto acquisito e irrinunciabile, sinonimo di civiltà giuridica che ben si accorda con i Diritti Umani Fondamentali.
Trattandosi, invece, dei Balcani, tutto diventa più confuso, lontano, ma, allo stesso tempo, prossimo e tangente.
L’imprecisione di fondo risiede nella relativa o, addirittura, scarsa conoscenza delle componenti etniche in campo.
All’osservatore sfugge il vero tema di fondo: il controllo della stabilità.
Impossibili da negarsi sono gli interessi occidentali che ruotano attorno alla macchina degli aiuti, anche militari, ed alla macchina della solidarietà, che assume una proporzione di mercato assolutamente appetibile. Una solidarietà che, se espressa dalle popolazioni albanesi delle regioni contermini agli insediamenti albanesi in FYROM diventa complicità, ma se svolta dalla NATO ecco che torna a prendere il nome di stabilità solidale. Analoghi e più invasivi episodi di “solidarietà” ci hanno visti acquiescenti, se non, addirittura, propensi. Quando guardiamo, infatti, alla stabilità di regioni e territori di interesse economico per il mondo occidentale, tutto diventa lecito e le rivoluzioni, dalle primavere arabe a quella ucraina ne sono l’esempio eclatante.
A seguito della sottoscrizione dell’accordo di Ohrid del 13 agosto 2001, ratificato dal Parlamento Macedone il 16 novembre 2001, sembrava, però, che in FYROM la via per addivenire ad una (sorta di) pace fosse stata intrapresa. Ma il riconoscimento formale di una minoranza e l’ammissione a relazionare in lingua albanese in Parlamento durante le sedute ufficiali non sono bastate ad appianare e rimuovere le discriminazioni di fatto tra le componenti etniche maggioritarie. L’enfatizzazione di episodi d’intolleranza sono parte di una politica che i media filo nazionalisti locali cavalcano facendo ripiombare così, a fasi alterne, la piccola Repubblica balcanica in periodi di grande instabilità sociale.
Ad undici anni dalla pace di Ohrid, così, nulla sembra essere mutato e riaffiorano pericolosamente gli stessi spettri che, lontani dall’essersi dissolti, continuano ad orientare le coscienze dei semplici, dei disoccupati, di quelle ampie frange di popolazione che non hanno cultura o altro modo d’informarsi se non la televisione di stato. Una fetta di popolazione che, da una recente stima, si attesta intorno al 32% dell’intera popolazione di FYROM.
Chi dovrebbe ascoltare le problematiche di un Popolo e risolverle continua a puntare (o attirare) lo sguardo su ciò che i riflettori illuminano senza curarsi di andare a vedere cosa si muova nella penombra che affligge i lati del palcoscenico.
Per esempio, Radmila Šekerinska, leader dell’opposizione parlamentare ed ex leader dell’Unione Socialdemocratica di Macedonia (SDSM) porta l’attenzione sulla possibilità di inserire delle quote di rappresentanza, invece di assicurare che uguali diritti vengano riconosciuti a tutti i cittadini.
Da questo è desumibile come anche nelle sedi istituzionali macedoni permangano, alla base delle strategie politiche dei processi integrativi sociali, delle premesse che potrebbero essere definite controverse, se non allarmanti. Si tratta di affermazioni permeate di uno spirito di supina “accettazione” della diversità che viene mutuata come un dato; da rimuovere, eventualmente, con il tempo e non come un’opportunità con la quale interagire nel rispetto delle tipicità. Un obiettivo sensibilmente difficile da raggiungere, tanto più se l’accesso alle strutture d’educazione superiore, quali le Università, rimane condizionato all’appartenenza al gruppo etnico o ad una cordata politica.
Un’interessante parentesi riguarda, infatti, la storia recente dell’Università statale per gli Albanesi. Un’Istituzione sorta a Tetovo in forma illegale e clandestina circa dieci anni fa, riconosciuta ufficialmente e statalizzata solo nel 2009. È facile comprendere come resti obiettivamente difficile intuire quali debbano essere i tempi in cui le distanze relative alla formazione culturale debbano essere colmati.
Gli assunti del Deputato Šekerinska, come quello che considera la componente macedone-albanese in ritardo culturale e sociale rispetto a quella macedone-slava, nel tentativo di lenire una criticità evidente traggono giustificazioni logiche attraverso tecniche comparative e riferimenti eterogenei che nulla hanno di attinente con le evidenze locali. Si tratta unicamente di prese d’atto afferenti situazioni quotidiane definibili come involontarie (per il tono di apparente normalità con il quali vengono espresse), ma dalle quali traspaiono stigmatizzanti affermazioni che da un punto di vista sociologico tendono a riconoscere come evidenti ed ineluttabili delle differenze (diversità) connaturate all’individuo etnicamente connotato. Problematiche e differenze che, invece, non risiedono nella tipizzazione nazionale o nell’appartenenza ad un gruppo sociale, ma che sono diffuse e andrebbero sanate attraverso il progressivo riconoscimento istituzionale del valore della cultura in sé, l’agevolazione di percorsi culturali e di istruzione realmente egualitari ed indiscriminati. Ma, quando i fatti sono ancora così recenti, il gap da sanare tra Macedoni-Albanesi e Macedoni-Slavi diviene arduo e la frattura si nutre di fatti di cronaca recente, come nel caso della condanna del rettore dell’Università di Tetovo, incriminato per aver insegnato in lingua albanese.
Permane, nonostante il trascorrere degli anni, tale contesto di criticità assistita. Quindi, alle Istituzioni locali rimane utile marginalizzare, relativizzandola, la reale situazione di dissenso trasversale e limitare l’intervento riconducendo le problematiche razziali a fattori esteriori di conveniente e facile gestione.
Sprechi, corruzione e scandali non riempiono i telegiornali perché sono evidenze che, invece, raccolgono da sole il dissenso interetnico e bipartisan e rischiano di unire il popolo.
Un esempio di quanto appena detto è costituito dal Programma Skopje 2014 relativo alle grandi opere. Il dissenso che queste registrano nella popolazione viene coperto da giustificazioni che si appigliano ancora una volta al fattore identitario nazionalista. Questo è un argomento che riassume in sé i connotati tipici degli interessi privati di una classe dirigente politica sulla quale la censura pubblica si abbatte corale e con nettezza.
Il problema, se affrontato dalla parte della collettività locale, è percepito assai diversamente. A suscitare criticità e frizioni è la destinazione dei soldi pubblici sottratti, o mai destinati, alla più impellente necessità della costruzione e implementazione delle strutture necessarie ai servizi minimi di primaria necessità. Sforzi economici che sarebbero condivisi e sostenuti coralmente se utili a rendere sostenibile la vita in un territorio discriminato nei fatti.
Il comune (ma taciuto) modo di sentire fa sì che il Progetto Skopje 2014 appaia al popolo come un’operazione suicida che ha solo assorbito denaro pubblico con l’unico scopo di giovare all’immagine dei politici e di una città, una storia, artificiali. Una città, Skopje, che rispecchia l’iter di storicizzazione del poco e del nulla, ma la cui anima, la vera parte storica e significativa, rimane al di là di un confine etnico e politico (il ponte di pietra sul fiume Vardar) da due anni appena servita dalla corrente elettrica pubblica, deficitaria di un sistema di raccolta delle acque nere e di collettori per le acque pluviali.
La priorità è stata data alla costruzione della storia patria; un patchwork che trae confuso spunto da miti, leggende e personaggi più o meno significativi ai quali ricondurre un’identità comune. In questa operazione si spazia tra la Grecia classica e la storia paleoslava fino a concludere la corsa con i grandi eroi della guerra d’indipendenza contro l’impero Ottomano del 1903; il tutto, poi, si esprime e sostanzia nella costruzione di una serie di nuovi monumenti antichi di ispirazione classica incastonati in una cornice di facciate di palazzi neoclassiche o neobarocche espressione del cattivo gusto personale di qualche politico esuberante.
Si tratta di una serie di costruzioni che non offendono solo l’intelligenza del visitatore e dell’acculturato cittadino, ma anche l’identità composita di un popolo. I monumenti, last but not least, hanno assorbito in una voragine corruttiva il denaro che sarebbe potuto servire, per esempio, alla sanità pubblica. Un servizio, questo, che sebbene diviso per etnia e collocazione geografica è democraticamente livellato verso il basso nel disservizio generalizzato alla collettività. Si cita ad esempio la somministrazione di vaccini, la cui inefficacia è sotto gli occhi di tutti, ma che sono acquistati a prezzi concorrenziali dai mercati dell’Africa e non dalla più vicina Europa. Medicinali che risultano economicamente convenienti, ma che alimentano e ingigantiscono le già esistenti e trasversali diversità sociali. In questo frangente, infatti, solo chi ha connessioni in Grecia o in Italia può vaccinare i propri figli con una certa sicurezza escludendo tutti gli altri.
Analoga situazione viene segnalata per quanto riguarda le bombole d’ossigeno che alcuni medici scelgono di acquistare, con proprio impegno finanziario ed illegalmente, oltre i confini macedoni per sopperire alle carenze della struttura sanitaria pubblica. Lo stipendio di un medico oscilla tra i 400 ed i 600 euro al mese.
Di fronte ad una generalizzata diffusione di criticità sociali, tutto appare giustificante ed è anche comprensibile come convenga in FYROM riuscire a mantenere l’attenzione internazionale puntata su temi facilmente risolvibili.
Dal quadro politico ed interetnico che emerge si desume che gli esiti del conflitto bellico del febbraio del 2001 non hanno modificato di molto gli equilibri e le problematiche che l’hanno generato. Infatti, gli ultimi report redatti dagli osservatori internazionali sono estremamente chiari nel definire la situazione.
“Il massiccio coinvolgimento dei giovani negli scontri di marzo e il loro avvicinarsi alle tematiche nazionaliste hanno una delle loro radici nel sistema di istruzione che dal 2001, anno degli accordi di Ohrid, ha visto il sistema educativo macedone compiere passi nella direzione della segregazione piuttosto che dell’integrazione: in questo scenario, riproposto dai vari Governi nel corso degli anni, i giovani sono ben presto entrati in contatto con i nazionalismi a base etnica presenti in Macedonia.
A questo si aggiunge la frustrazione per la mancanza di prospettive dovute all’alto tasso di disoccupazione (circa il 30%), le ripercussioni sull’economia macedone della crisi greca, l’impossibilità di vedere soddisfatta la richiesta di annessione alla Comunità Europea e quella di entrata nella NATO a causa del veto greco per questioni simbolico – nazionaliste legate al nome e al passato della Macedonia”.
L’ostentata dichiarazione di stato d’assedio alla quale FYROM ricorre o si abbandona, alternativamente e con costanza, coniugata alla continua ricerca di un nemico (interno o esterno che sia) attorno al quale unire il sentimento nazionalista del piccolo Stato è la testimonianza più evidente di quanto il sistema sia debole. Una riprova di quanto sia necessario – potremmo dire urgente – un intervento esterno di tutoraggio da parte della Comunità Internazionale. Un tutor diverso da quello attuale, che alimenta appetiti e criticità; un dispositivo di compartecipazione che abbia scopi anche ulteriori rispetto all’agevolazione degli investimenti di potenze economiche che ne hanno fatto, e tutt’oggi ne fanno, un mercato da conquistare, un crocevia di affari (più o meno leciti) e una terra dove attuare politiche post-colonialiste a seguito delle quali replicare quel sistema capitalista di mercato che riconosce meriti solo al profitto.
Urge, infatti, un’assistenza che creda nello sviluppo di un territorio da perseguire attraverso la condivisione di spazi e di programmi il cui obiettivo principale sia l’implementazione della potenzialità locale attraverso il riavvicinamento del popolo macedone a se stesso; un dialogo interno al quale addivenire facilitandolo nel difficile processo di riconoscimento sotto un modello identitario transnazionale unitario e non nazionalista divisorio. È in un’ottica di valorizzazione delle potenzialità interne che (a dispetto dei clientelismi che attualmente dominano il mercato dell’occupazione – settore pubblico in primo piano) si potrà scongiurare un altro, tanto probabile quanto verosimile, scenario bellico che arretrerebbe i già precari equilibri della regione balcanica.
Se la situazione politica della Former Republic of Macedonia non è ancora assolutamente chiara, lo sono invece gli scopi che l’attuale Governo intende perseguire e le strategie che pone in essere per conseguirli.
Prodotto geopolitico della disgregazione post-jugoslava, FYROM, sebbene si trovi al centro di un crocevia economico, non è ancora riuscita a ritagliarsi un posto nel panorama balcanico. Gioca, quindi, il ruolo che le costa meno di fattore destabilizzante degli assetti delle Repubbliche circostanti con l’unica ambizione di entrare nella NATO e, successivamente, nell’Unione Europea.

CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E TRAFFICO DI ESSERI UMANI
Per comprendere cosa e come accade nei Balcani ed in FYROM bisogna porsi degli interrogativi. Le milizie etniche paramilitari sono scomparse? È davvero così inverosimile che la situazione precipiti perché non esiste un’organizzazione politico militare che sostiene le recriminazioni crescenti dell’etnia macedone-albanese? È così ininfluente, nel panorama locale, l’attuale esasperazione della situazione politica ingenerata dalla pressione della Serbia nei confronti del Kosovo? Le mafie locali, preesistenti alla guerra del 2001, che hanno contribuito allo sforzo militare esistono ancora o si sono disgregate/integrate nel ruolo politico che ha consentito loro di emergere dalla condizione esclusivamente criminale?
Qualunque sia l’ordine degli addendi, il risultato di oggi è tale da confermare il consolidamento e lo sviluppo dei sodalizi malavitosi arricchitisi, nel frattempo, di contatti e relazioni, divenendo così centri nodali delle reti dell’attività criminale transfrontaliera che uniscono e connettono l’Oriente all’Occidente. Una strategia vincente per la criminalità locale di un piccolo Stato posto al centro delle grandi rotte lungo le quali avvengono i traffici dei sodalizi organizzati a livello internazionale -come quelli bulgari, greci, albanesi – o, ancora, provenienti dall’Europa continentale, come, per esempio, quelli italiani e francesi, dei quali sono divenuti interlocutori e referenti.
Il vuoto di potere che si percepisce nei territori di frontiera della FYROM è tangibile ed ha fatto sì che la rappresentanza politico-amministrativa locale registrasse la progressiva, e sempre più forte, partecipazione alle attività della vita civile di un potere extralegale, un termine, questo, che non designa solo il commercio illegale di beni fuorilegge, ma che connota anche l’approvvigionamento di prodotti legali tramite, però, procedure che non lo sono.
Il metus spontaneo nei confronti di questi sodalizi, coniugato all’assai scarsa diffusione della cultura ed al condizionamento degli organi di informazione pubblica, presentano l’assetto sociopolitico ottimale ed utile a far salire l’indice di condizionamento di ogni attività, tanto da giungere con facilità al governo del territorio.
Come già detto, FYROM è uno Stato recentissimo all’interno del quale convivono storicamente delle presenze nazionali etnicamente connotate. Le relazioni interne, strutturatesi tra gruppi politico-identitari nell’ultimo decennio, impediscono che un’etnia riesca ad assumere un ruolo di primazia rispetto alle altre in modo da indirizzare la politica internazionale verso un’univoca direzione.
Verso una certezza, una sicurezza delle relazioni.

Febo Ulderico della Torre di Valsassina
Ricercatore sulle dinamiche socio economiche della comunità cinese in Italia presso la School of Advanced Studies dell’Università di Camerino. Svolge, inoltre, ricerca presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche sulle politiche di sicurezza transfrontaliera e delle migrazioni

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