Maltrattamenti dal partner: esperienze delle donne e risposte delle istituzioni sociali

I maltrattamenti agiti dal partner rappresentano una delle forme di violenza maschile contro le donne più frequenti, pervasive e, proprio perché avvengono nel contesto di una relazione intima, più difficili da contrastare.

di Patrizia Romito

Secondo uno studio condotto a livello europeo dalla Fundamental Rights Agency (Violence Against Women: an EU-wide Survey, 2014), il 19% delle donne italiane ha subito, nel corso della vita, violenze fisiche o sessuali da un partner o da un ex-partner. Si tratta di violenze ripetute: ad esempio, tra le donne che riportano violenze sessuali, più di un terzo ha subito sei o più stupri. In molti casi, il partner violento continua ad esserlo durante la gravidanza. Le violenze psicologiche gravi, intense e ripetute (insulti, denigrazioni, minacce, comportamenti di controllo come l’esser chiuse in casa e fuori casa) sono ancora più frequenti di quelle fisiche o sessuali. Sempre da questa ricerca ci perviene un’altra informazione importante: nel 73% dei casi di maltrattamenti sulle donne, i figli erano presenti o, comunque, consapevoli di quanto succedeva. Questa situazione, denominata “violenza assistita”, causa un grave pregiudizio ai bambini, i quali, spesso, rimangono traumatizzati dalle violenze alle quali hanno assistito.

Le donne hanno fornito queste indicazioni rispondendo ad un questionario anonimo: è un’informazione che va sottolineata perché, purtroppo, ancora oggi, molti, nella popolazione generale, ma anche tra gli “addetti ai lavori”, tendono a mettere in dubbio la credibilità delle donne, a minimizzare o a banalizzare le violenze subite (esagera, vuole vendicarsi dell’ex-marito, e così via) (vedi Romito, Un silenzio assordante. La violenza occultata su donne e minori, 2005).

Difficilmente, coloro i quali non conoscono, per esperienza diretta o indiretta, queste situazioni possono rendersi conto della sofferenza vissuta da queste donne e dell’enorme energia spesa, prima per cercare di modificare il comportamento dell’uomo violento, poi per cercare di allontanarsi da lui. A volte ci si domanda perché le donne vittime di violenze non lascino l’uomo che le maltratta. Si tratta di una scelta sempre molto difficile e onerosa, nella quale entrano motivazioni personali e psicologiche (i sentimenti nei riguardi di un uomo che si è amato, il senso di responsabilità nel voler mantenere la famiglia unita), di tipo materiale (difficoltà economiche o di alloggio) e la paura indotta dalle minacce del partner: minacce di non lasciare mai in pace la donna vittima di violenza, di toglierle i figli, di uccidersi o di ucciderla. Queste minacce possono essere fondate. Tutte le ricerche riferiscono che raramente i partner violenti smettono di esserlo dopo la separazione. In particolare, le violenze riguardano quasi il 100% delle donne che lasciano un uomo violento e che hanno figli minori: l’uomo violento, infatti, così come non vuole lasciare la presa sulla donna, non vuole lasciarla sui figli. Si tratta di situazioni pesantissime, all’interno delle quali gli uomini violenti, e i loro avvocati, utilizzano varie strategie, tra le quali la cosiddetta “Sindrome di Alienazione Parentale” (SAP): se un bambino, dopo la separazione dei genitori, si rifiuta di vedere il genitore non affidatario, questo avverrebbe sempre perché la madre lo manipola in questo senso. Di conseguenza, chi crede in questo modello, non può neppure concepire che il bambino rifiuti i contatti perché, a giusto titolo, ha paura del padre. Si preclude, così, ogni possibilità di scoprire eventuali maltrattamenti contro i bambini o contro le madri. Nonostante la totale mancanza di un sostegno scientifico, e il fatto che la SAP sia stata inventata da uno psichiatra, R. Gardner, dichiaratamente pro-pedofilia, questo modello, nelle sue varie versioni, esercita molta presa nei tribunali: un’ulteriore indicazione del fatto che, nonostante tutto quello che ormai sappiamo sulla violenza dei partner, le donne sono spesso ritenute non affidabili quando denunciano le violenze. La cronaca terribile delle donne trucidate in Italia riporta, inoltre, che gli assassini sono molto spesso gli ex-mariti o gli ex-conviventi, i quali uccidono dopo anni di maltrattamenti, togliendo la vita, a volte, anche i bambini (vedi Romito e Melato, Violenze su donne e minori: una guida per chi lavora sul campo, 2014).

Due documenti recenti e molto autorevoli – le Linee-guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) su “Come rispondere alla violenza domestica e sessuale contro le donne. Orientamenti e linee-guida cliniche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (versione italiana a cura di G. de Girolamo e P. Romito, 2014) e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica (2011) (Convenzione di Istanbul) – forniscono, per fortuna, delle indicazioni su come le varie istituzioni sociali devono rispondere alle donne vittime di violenza.

L’importanza delle Linee-guida dell’OMS su “Come rispondere alla violenza domestica e sessuale contro le donne” risiede nel ruolo chiave svolto dagli operatori sanitari nel rispondere ai bisogni delle vittime: essi/esse sono spesso le prime figure e, a volte, le sole che possono rendersi conto della situazione vissuta dalla donna; rappresentano, spesso, delle figure autorevoli nella comunità e i loro comportamenti assumono un “peso” importante sulla singola paziente e sulle persone che la circondano; la violenza, presente o passata, costituisce una delle cause della malattia/sofferenza (a volte la principale) e va, innanzitutto, riconosciuta in quanto tale. Di conseguenza, va inclusa nella diagnosi e nella presa in carico.

Altrettanto importante è l’approccio generale delle Linee-guida: le conseguenze di questa violenza rappresentano un problema sanitario di enorme portata ed è quindi responsabilità dei servizi sanitari nazionali rispondervi in modo appropriato. Il problema della violenza sulle donne trova le sue radici nella disparità tra i generi e nella discriminazione contro le donne (come ribadito da vari documenti delle Nazioni Unite). Va, quindi, affrontato sul piano culturale e politico. In sintesi, ecco alcuni elementi importanti delle Linee-Guida:

Secondo l’OMS, le cure sanitarie dirette alle vittime di violenza devono radicarsi in un approccio rispettoso dei diritti umani delle donne. Ciò significa adottare un approccio di cure “centrato sulle donne”, che tuteli la loro dignità e garantisca autonomia decisionale. Ad esempio, se è necessario che l’operatore sappia individuare i segnali di violenza e sappia ascoltare la donna con empatia, non deve esercitarle pressione perché riveli la sua storia o adotti un percorso (per esempio, denunciare il violento) invece di un altro.

L’approccio alle cure deve essere “gender sensitive”, attento alla questione di genere. Gli operatori sanitari devono possedere la consapevolezza dell’impatto che il “genere” – discriminazioni materiali, aspettative, stereotipi, ecc. – esercita sulla vita delle donne. Devono, quindi, essere in grado di tenerne conto nell’approccio con le vittime. Come vedremo, si tratta di un messaggio fortemente presente anche nella “Convenzione di Istanbul”.

Tutti gli interventi proposti nelle Linee-guida si basano sul fatto che il personale sanitario – operatori, ma anche personale tecnico-amministrativo e dirigenti – sia formato sulla materia della violenza di genere. Tale formazione deve essere erogata o coordinata da attiviste nel campo della violenza, in Italia diremmo da operatrici di accoglienza, dotate di esperienza di lavoro nei centri anti-violenza.

La Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nell’agosto del 2014, costituisce “il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza“. Come tale, dovrebbe rappresentare una lettura obbligata per chiunque si trovi, nell’ambito del suo lavoro, ad incontrare vittime di violenza. Già nel Preambolo, la Convenzione riconosce la natura strutturale della violenza di genere, individuata come uno dei meccanismi cruciali con i quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini. In estrema sintesi, la Convenzione è incentrata sulla prevenzione della violenza contro le donne, la protezione delle vittime e il perseguimento dei trasgressori; caratterizza la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione (Art. 3); specifica che i Paesi dovrebbero operare con la dovuta diligenza nel prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i colpevoli (art. 5). La Convenzione è, inoltre il primo trattato internazionale a contenere una definizione di genere. All’art. 3, infatti, il genere è definito come “ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”.

Rispetto alla questione delicata della “violenza assistita”, fin dal Preambolo si riconosce che i minori possono essere vittime di “violenza domestica”, anche come “testimoni” delle violenze stesse; tra le circostanze aggravanti (art. 46), la violenza compiuta in presenza di un/a bambino/a. Quando i/le bambini/e subiscono “violenza assistita”, dovrebbero essere adottate misure appropriate nel loro miglior interesse (art. 56). In maniera specifica, l’art. 31 “Custodia dei figli, diritti di visita e sicurezza” precisa che: 1 Le Parti adottano misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che l’esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini.

Per concludere, entrambi i documenti – Linee Guida dell’OMS e Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa – sottolineano la necessità di riconoscere la violenza contro le donne senza mistificarla o minimizzarla e di tenerne conto nelle decisioni assunte dai servizi sociali e dai tribunali. Rappresentano, inoltre, degli strumenti imprescindibili nel percorso di prevenzione e contrasto della violenza che alcuni uomini agiscono nei confronti delle donne.

Patrizia Romito

Professoressa di Psicologia Sociale e di Comunità, Università di Trieste

Delegata del Rettore per “Riequilibrio delle Opportunità, necessità didattiche e disabilità”

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