Kosovo, storie di disabilità e integrazione

Angela Caporale

kosovoCi sono storie che nessuno conosce. Piccoli frammenti di vite in una terra che della frammentazione ha fatto la sua essenza. Storie di abbandoni, pregiudizi, intolleranza. Storie piccole, come i loro protagonisti, ma che diventano grandi per la loro attitudine a raccontare il proprio tempo.
Ci sono anche storie belle, di quelle che, come nelle fiabe, portano gioia, speranza, lieto fine.
In Kosovo, fazzoletto della penisola balcanica e teatro dell’ultima, terribile, guerra fratricida della regione, il peggio sembra passato: gli scontri sono ormai alle spalle e, sebbene non sia ancora stato riconosciuto come Stato indipendente dall’intera comunità internazionale, la via della normalizzazione sembra intrapresa. Qui, ormai 15 anni fa, a Zlokucane, municipalità di Kline, Massimo Mazarri e sua moglie Cristina hanno avviato l’attività della Caritas, sezione umbra.
L’idea iniziale era quella di offrire sostegno e cooperazione alla popolazione vittima del conflitto. Una volta giunti nel Paese, però, è emersa una problematica tanto nuova, quanto peculiare, che li ha convinti a mutare considerevolmente la loro missione. Tutto è cominciato, come raccontano a The Post Internazionale, da un bambino abbandonato dalla madre e poi anche dal padre, di etnia rom. I genitori temevano che anche lui potesse subire le violenze e la rappresaglia dell’Uck, l’esercito di liberazione del Kosovo, contro tutti coloro che avevano sostenuto i Serbi durante il conflitto.
La storia di questo bimbo è così diventata il simbolo dell’intera attività dell’organizzazione. Oggi essa ospita una ventina fra bambini e ragazzi nella casa costruita con il supporto della missione Nato attiva in Kosovo, la Kfor. La maggior parte dei minori accolti accusa problemi psicologici o fisici.
Questi spesso rappresentano il motivo dell’abbandono da parte delle famiglie. In Kosovo, infatti, la disabilità è ancora percepita come una forma di disonore, una ragione sufficiente per emarginare o abbandonare un figlio.
Nel corso degli anni, i ragazzi accolti nella struttura sono stati reinseriti nelle loro famiglie o mandati a studiare in Italia. Gli ospiti attuali, invece, lavorano insieme ad altri volontari kosovari e di altre Nazioni in una cooperativa attiva nella ricostruzione e nell’agricoltura. Sebbene questi rappresentino solo i primi passi verso il superamento dei pregiudizi legati alla diversità, l’attività di risocializzazione mediata dalla Caritas sembra raccogliere risultati positivi e l’approvazione della popolazione locale, promuovendo un coinvolgimento degli stessi Kosovari nella costruzione del rinnovato tessuto sociale del Paese.

Angela Caporale
Caporedattrice di SocialNews

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