Intimità e malattia cardiovascolare: due mondi conciliabili

di Alessandro Altinier, Giorgio Faganello, Andrea Di Lenarda

Uno studio recente, condotto negli Stati Uniti ed in Spagna su 2.349 donne e 1.152 uomini di età compresa tra i 18 ed i 55 anni con recente storia di infarto, ha messo in luce come la classe medica sia spesso restia ed impreparata nel trattare queste tematiche

Di LenardaRiadattarsi alla vita di tutti i giorni può rivelarsi difficile dopo una diagnosi di patologia cardiovascolare, specialmente in seguito ad un evento cardiovascolare. Emergono preoccupazioni e dubbi inerenti ai vari aspetti della vita quotidiana: quali cibi o bevande evitare?
Potrà l’organismo sopportare nuovamente stress fisici ed emotivi?
Tra le varie incertezze, emerge con forza quella riguardante l’attività sessuale. Può succedere che taluni pazienti, ritenendo incompatibile l’attività sessuale con la patologia cardiovascolare, sospendano o riducano i rapporti intimi con una ricaduta negativa sulla qualità della vita e delle relazioni interpersonali, fino ad arrivare a uno stato d’isolamento, ansia e depressione.
Alcuni studi hanno dimostrato come il 61% dei pazienti vorrebbe parlare di queste problematiche con il proprio medico, ma solo meno del 15% comunica le proprie preoccupazioni. Queste sono le premesse che ci hanno spinto a scrivere l’articolo, al fine di cercare di sfatare false convinzioni e promuovere un dialogo aperto tra medico e paziente, eliminando tabù ed ingiustificati sensi di vergogna.
Uno studio recente, condotto negli Stati Uniti ed in Spagna su 2.349 donne e 1.152 uomini di età compresa tra i 18 ed i 55 anni con recente storia di infarto, ha messo in luce come la classe medica sia spesso restia ed impreparata nel trattare queste tematiche: meno del 15% dei pazienti viene informato, ricevendo, spesso, indicazioni contraddittorie, troppo restrittive e poco evidenced-based.
Numerosi studi hanno esaminato la risposta neuroendocrina dell’organismo all’atto sessuale, rilevando un moderato incremento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, con un rapido rientro dei parametri ai valori basali senza significative differenze tra uomo e donna. L’attività sessuale è, infatti, assimilabile ad un esercizio fisico di grado lieve-moderato, quantificabile in 3-4 equivalenti metabolici (METS), equiparabile allo sforzo necessario a salire due rampe di scale.
Nella gran parte dei casi, è, quindi, compatibile con la patologia cardiovascolare. Le preoccupazioni dei pazienti risultano, perciò, non del tutto giustificate. Gli studi indicano che circa il 90% delle fatalità accadute durante l’attività sessuale colpisce i maschi e che, nel 75% dei casi, si tratta di eventi accaduti al di fuori di relazioni stabili, con partner più giovani e/o dopo abbondanti libagioni.
Nel 2012, la società americana di cardiologia (AHA) ha elaborato uno statement con l’intento di sintetizzare le evidenze scientifiche e produrre delle raccomandazioni pratiche finalizzate a favorire un dialogo aperto tra medico e paziente.

Cardiopatia Ischemica
Quando riprendere una normale attività sessuale dopo un infarto del miocardio?
La risposta è strettamente legata all’entità dell’infarto stesso ed alla cicatrice lasciata sul muscolo cardiaco. È, dunque, un argomento di discussione tra medico specialista e paziente. Nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica stabile, paucisintomatici o asintomatici e già sottoposti ad una rivascolarizzazione coronarica completa, viene consigliata la ripresa dell’attività sessuale nei casi in cui vengano raggiunti i 3-5 METs alla prova da sforzo, senza segni d’ischemia coronarica all’elettrocardiogramma, dispnea, cianosi, aritmie o ipotensione. Gli studi riferiscono che, in questi pazienti, è rara la comparsa di angina durante l’atto sessuale. Dopo interventi di rivascolarizzazione, percutanea o con by-pass aortocoronarico a decorso non complicato, vanno rispettati dei tempi “tecnici” prima della ripresa dell’attività sessuale, legati alla completa risoluzione dell’accesso venoso, nel primo caso, e dopo almeno 6–8 settimane, necessarie ad una completa guarigione della ferita sternotomica. In generale, l’attività sessuale è associata ad un lieve incremento di eventi cardiaci ed il rischio assoluto è trascurabile: meno dell’1% di tutti gli attacchi cardiaci avviene, infatti, durante il coito (in termini statistici, è più probabile essere colpiti da un fulmine!). Dati di letteratura suggeriscono, inoltre, che una regolare attività fisica aiuta a ridurre il rischio di infarto miocardico conseguente all’attività sessuale.
Nei casi in cui sia avvenuta una rivascolarizzazione coronarica incompleta, la valutazione di ischemia inducibile residua rappresenta un valido strumento per determinare la tolleranza all’attività fisica e, quindi, l’eventuale indicazione alla ripresa dei rapporti sessuali.
Nei pazienti instabili o sintomatici, infine, dovrebbe essere sconsigliata l’attività fisica sino a valutazione specialistica e stabilizzazione del quadro clinico.

Scompenso Cardiaco
Le alterazioni emodinamiche, vascolari, ormonali e neurormonali che caratterizzano lo scompenso cardiaco, nonché l’utilizzo di diversi farmaci, possono contribuire allo sviluppo di alterazioni della sfera sessuale che interessano il 60-90% dei pazienti, con una ricaduta negativa sulla qualità di vita, soprattutto per i pazienti più giovani e di sesso maschile. La sicurezza dell’attività sessuale può essere correlata alla severità della classe funzionale NYHA ed alla frazione d’eiezione ventricolare sinistra. Una terapia medica ottimizzata incrementa la sensazione di soddisfazione sessuale. Studi effettuati su pazienti con scompenso cardiaco cronico stabile (NYHA I-II) hanno mostrato come questi soggetti possano condurre una vita sessuale attiva in sicurezza. Sconsigliata, invece, nei pazienti con scompenso cardiaco avanzato e/o importante limitazione funzionale (classe NYHA III-IV).

Valvulopatie
Nonostante siano disponibili indicazioni sulla limitazione dell’attività fisica per i pazienti con malattia valvolare, non vi sono studi che abbiano approfondito specificatamente il rischio legato all’attività sessuale. È, però, possibile derivare, dalle evidenze esistenti e dalla pratica clinica, indicazioni di buon senso: i pazienti portatori di valvulopatia non severa possono affrontare con sicurezza un’attività fisica non intensa, ed è quindi ragionevole presupporre che possano intraprendere una vita sessuale attiva senza preoccupazione.
Per i pazienti con malattia valvolare severa e sintomatica, invece, è opportuno rinviare la ripresa dei rapporti intimi dopo un’accurata valutazione medica o il trattamento chirurgico.
Nei soggetti in cui la severità e la sintomaticità della patologia sia dubbia, l’esecuzione di un test induttivo permette di valutare la risposta emodinamica, i sintomi e l’eventuale insorgenza di aritmie.
Non vi è nessuna ragione per precludere una normale attività sessuale ai pazienti portatori di protesi valvolari normo-funzionanti dopo almeno 6–8 settimane dall’intervento cardio-chirurgico.

Defibrillatore impiantabile (ICD)
La presenza di un ICD non rappresenta una controindicazione all’intimità. Talvolta, succede che i pazienti portatori di un defibrillatore temano l’insorgenza di uno shock durante il rapporto sessuale. La probabilità che si verifichi tale evenienza è marginale e la scarica del defibrillatore non rappresenta in alcun modo un pericolo per il partner.
Il rischio di insorgenza di un’aritmia ventricolare in questo contesto è sovrapponibile a quello legato ad uno sforzo fisico equivalente. L’esecuzione di un test da sforzo potrebbe essere d’aiuto nel rassicurare paziente e partner, soprattutto se l’impianto è avvenuto in un contesto di prevenzione secondaria. Il dispositivo è, inoltre, capace di discriminare se l’incremento della frequenza cardiaca è legato allo sforzo fisico o ad un’aritmia ventricolare minacciosa (tachicardia ventricolare, fibrillazione ventricolare), rendendo improbabile un intervento inappropriato.

Disfunzione erettile: gestione e trattamento
Nella sfera sessuale maschile, i problemi più spesso riportati includono la riduzione del desiderio e la difficoltà nel raggiungere e mantenere l’erezione. Se tale disturbo diviene costante, o molto frequente, si parla di disfunzione erettile (DE). La genesi di tale problematica è multifattoriale: psicogena, organica e iatrogena.
Sofferenza psicologica, depressione, ansia e preoccupazione legati alla performance sessuale, come già sottolineato, sono comuni nei pazienti con malattia cardiovascolare e si associano ad un aumentato rischio di sviluppare DE. Da uno studio condotto su 2.460 Danesi di età compresa tra i 18 e gli 88 anni, è emerso chiaramente come la qualità della vita dei soggetti con problemi alla sfera sessuale fosse fino al 19% inferiore rispetto alla popolazione generale. Un secondo studio, su 500 uomini francesi affetti da DE, ha evidenziato che il miglioramento dell’attività sessuale, dopo un adeguato trattamento farmacologico, si è accompagnato ad un aumento dell’autostima e delle relazioni interpersonali.
Non meno rilevante è la genesi vascolare del problema: DE e malattia cardiovascolare sono frequentemente associate e condividono i medesimi fattori di rischio (dislipidemia, diabete, fumo, ipertensione, vita sedentaria ed obesità). La comparsa di DE, infatti, può precedere di alcuni anni il manifestarsi di una malattia coronarica importante.
Recentemente, un gruppo di lavoro costituito da specialisti provenienti da discipline diverse, il “Third Princeton Consensus”, si è focalizzato sul tema della DE all’interno di un concetto più ampio di salute cardiovascolare. Il documento finale raccomanda che, nei pazienti affetti da DE, prima di intraprendere il trattamento farmacologico specifico per la stessa siano ricercate potenziali co-morbidità cardiovascolari ed, eventualmente, diagnosticata la presenza di cardiopatia ischemica attraverso l’utilizzo del test da sforzo. Infatti, i pazienti con test da sforzo negativo, o a basso rischio cardiovascolare, possono iniziare direttamente il trattamento farmacologico senza ulteriori indagini. Lo stesso non può esser sostenuto per i pazienti con test da sforzo positivo o ad alto rischio cardiovascolare, i quali devono rivolgersi allo specialista cardiologo.
Nell’ambito delle cause di DE, non si possono dimenticare gli effetti collaterali derivanti dalla terapia cardiovascolare: le categorie di farmaci più spesso chiamate in causa sono beta-bloccanti (fondamentali nel trattamento della cardiopatia ischemica e dello scompenso cardiaco), diuretici (in particolar modo i tiazidici) ed antialdosteronici. In casi più rari troviamo i farmaci antipertensivi (Alfa-bloccanti, ACE-inibitori, Calcio-antagonisti).
L’approccio al trattamento della DE prevede, come primo passaggio, la correzio-
ne delle cause predisponenti, soprattutto se reversibili: rassicurazione nei pazienti stabili, correzione dei fattori di rischio cardiovascolare, valutazione del potenziale iatrogeno della terapia somministrata ed, eventualmente, prescrizione di una valida alternativa farmacologica. Da diversi anni sono disponibili gli inibitori della fosfodiesterasi 5 (PDE5), un enzima che ha la funzione di degradare la guanosinmonofosfato ciclico (cGMP), fondamentale nella regolazione dell’erezione. Gli inibitori della PDE5, infatti, consentirebbero una produzione significativa di ossido nitrico, favorendo il meccanismo della vasodilatazione e, quindi, dell’erezione. Nonostante tali farmaci (Sildenafil, Tadalafil, Vardenafil e, più recentemente, Avanafil) si siano rivelati efficaci nel trattamento della DE, sono opportune delle precisazioni: inducono una vasodilatazione ed una possibile riduzione della pressione arteriosa sistolica (circa 10 mmHg) e diastolica (circa 8 mmHg), che può esser ancor più accentuata in pazienti con cardiopatia ischemica e/o valori pressori basali elevati.
Questi farmaci sono considerati sicuri ed efficaci in pazienti affetti da ipertensione
arteriosa e/o cardiopatia ischemica stabile ed in buon compenso emodinamico.
L’associazione con i nitrati (a breve e a lunga durata d’azione) rappresenta una controindicazione assoluta per il rischio di severa ipotensione. Peraltro, l’utilizzo della nitroglicerina in caso di dolore toracico insorto dopo assunzione di inibitori della PDE5 può avvenire solo a wash-out degli stessi completato. L’uso concomitante di inibitori della PDE5 con farmaci antipertensivi non presenta particolari problemi, eccetto che con la categoria degli alfa-bloccanti, per i quali sono consigliati un maggiore monitoraggio dei valori pressori ed una graduale titolazione della posologia per potenziali ipotensioni arteriose. In generale, gli effetti collaterali più comuni degli inibitori della PDE5 sono la cefalea, i flushing e la dispepsia.
Nonostante l’ampia diffusione di questi farmaci e la loro relativa sicurezza, è di fondamentale importanza che il paziente concordi con il proprio medico l’indicazione e la modalità di assunzione: un’eccessiva “disinvoltura” nel loro utilizzo, magari associato all’uso di altri farmaci vasoattivi, può causare effetti indesiderati importanti e potenzialmente dannosi per la salute. Non bisogna dimenticare, infine, che le cause di DE possono avere anche un’origine neurologica (es. ictus, tumori del SNC, malattie degenerative), post-chirurgica (interventi su prostata e colon-retto), anatomica (es. ipospadia, epispadia), ormonale (es. distiroidismi, ipogonadismo, iperprolattinemia) e post-traumatica.
In conclusione, l’attività sessuale e la malattia cardiovascolare sono due mondi spesso conciliabili ed è auspicabile che medico e paziente trovino una maggior empatia a tal riguardo.

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