I Savoia e il Jobs act

di Gennaro Pezzurro

Dopo 150 anni, i conti non tornano ancora. La riforma del lavoro è, ancora una volta, inadeguata a rispondere ai bisogni dei lavoratori e si inserisce in una storia che viene da molto lontano. Chissà se si concluderà mai

Roma, 12 novembre 2011, ore 21.42, palazzo del Quirinale: Silvio Berlusconi non è più il Presidente del Consiglio. In tre mesi, i media hanno insegnato a tutti gli Italiani cosa sia lo spread. Nei bar, dal parrucchiere, in chiesa, tutti parlano di indici finanziari, borse, attacco speculativo all’euro.
Come da tradizione, il popolo italico si riscopre esperto di finanza internazionale “parlata”. È il tripudio della saturazione da informazione. Qualcuno pensa che sia in atto un “golpe” mediatico ordito dalla Merkel e da Sarkozy, i finanzieri che sostengono i due Paesi stranieri, nei confronti dell’Italia, in particolare del sempiterno outsider del potere Berlusconi. Ma perchè?
È indubbio che, da quel punto in poi, il Presidente Napolitano abbia maltrattato, e pure parecchio, la Carta costituzionale italiana. Forgiata nel post-fascismo, essa prevede, agli artt. 87, 88 e 92, poteri non esecutivi, ma di garanzia repubblicana. La presidenza della Repubblica, dal Governo Monti in poi, ha assunto un ruolo politico forte e con un indirizzo preciso: rassicurare i partner europei in un’ottica di completo allineamento alle politiche economiche, prima tedesche e poi francesi. Ai più, Napolitano è sembrato il commissario europeo d’Italia, il governatore della colonia Italia che, secondo il paradigma calvinista mitteleuropeo, è una regione colpevole dei suoi mali e, quindi, da castigare. Qual è il suo peggior male? La propensione a fare debiti che non sarà in grado di onorare. Questo l’Europa proprio non ce lo perdona, dal 1861. Già, il 17 marzo 1861, quando, con la promulgazione della Legge 4671, Vittorio Emanuele II si incorona Re d’Italia trasferendo sull’intera popolazione italiana il debito fuori controllo di casa Savoia, 1.2 miliardi di lire (rif. L’ Italia Economica nel 1868 – Pietro Maestri), equivalenti a 8.200 miliardi di lire del 2001, con un incremento del 565,42% dal 1857, circa il 74% del PIL e con i Rothschild alle calcagna.
Al sud, i Borbone avevano un PIL quasi doppio rispetto al Piemonte e un rapporto debito/PIL pari al 16,57%, con le casse del Regno piene d’oro.
Dopo 161 anni, i Tedeschi non vogliono fare la fine di Ferdinando II. Semplice. Questo è il motivo!
Gli eredi dei Rothschild, e gli altri, aspettano dal 1992 che gli “Itagliani” facciano ammenda delle proprie antiche colpe e avviino le vere riforme, prima come espiazione e poi per garantire l’onorabilità del debito.
Gli unici Italiani che abbiano garantito serietà in tal senso sono Amato, Napolitano e Monti. Gli altri no, figurarsi il plebeo self-made Berlusconi, senza pedigree e mai allineato.
Amato, da Presidente del Consiglio, tagliò corto: prelievo forzoso dai conti correnti. Poi, stangata sulle pensioni. Un po’ ai ricchi e un po’ ai poveri, idealmente, s’intende. Sia chiaro, da Rumor in poi tutti i Governi hanno irritato i Calvinisti, comprando consensi con il debito pubblico, abituando gli Italiani ad un modo di vivere “scellerato”, strafottente del destino dei propri figli. Ma l’alternanza Prodi/Berlusconi, lungi dall’essere, nei fatti, allineata alla politica europea, nel primo caso per debolezza politica e nel secondo per indisciplinatezza, ha definitivamente condannato l’Italia al ruolo di Nazione insubordinata e rischiosa, con buona pace degli avvoltoi della finanza. L’apice del disastro è stato il novembre nero 2011: spread alla soglia dei 600 punti, tassi di interesse da capogiro. Interviene il commissario straordinario Napolitano. In realtà, già si stava preparando dall’estate, nominando Monti Presidente del Consiglio. Il successivo decreto salva Italia, quello delle lacrime della Fornero, sarà l’ennesimo scaricabarile sulle spalle del Popolo italiano, con le corporazioni e i ricchi che, a suon di lobby parlamentari, sfilano dal documento inizialmente redatto da Corrado Passera la famosa patrimoniale da 85 miliardi. Gli unici risultati di quella drammatica stagione furono la “macelleria sociale” della Legge Fornero sulle pensioni e la stagnazione economica. Lo spread calerà, ma più grazie alle iniezioni di denaro della BCE che grazie a Monti.
La fede europeista del commissario Napolitano non demorde fino a quando un giovanotto, fin troppo ambizioso, bravo comunicatore accompagnato da giovani economisti ed imprenditori che non hanno mai conosciuto Enrico Cuccia e Mediobanca (il salotto buono milanese dell’oligopolio industrial-finanziario fino a mani pulite), si presenta al Quirinale con una specie di maggioranza e un endorsement importante, quello di Obama e del potente lobbista Tony Podesta, dal quale ha imparato tante cose. A quel punto, le certezze da nocchiero del Presidente cominciano a vacillare. Il 22 febbraio 2014 nasce il primo Governo italiano formato da uomini e donne che non hanno frequentato Mediobanca, o quasi. L’Europa e gli USA si aspettano molto e in fretta. La favolosa mistura di ambizione e antico rancore democristiano domina la scena politica fino ai giorni nostri. Ridurre gli spazi al sindacato, specie quello non allineato alla segreteria PD: nasce la campagna contro l’articolo 18 e l’attacco allo Statuto dei Lavoratori, in verità più per motivi mediatici che per convinzione. Renzi capisce subito che il
paradigma calvinista mitteleuropeo è sempre li a colpevolizzare, stavolta lui, se non si fanno in fretta le riforme rimaste a metà e che attendono dal 1992 di completarsi. Ciò per dire all’Europa che, stavolta, non ci sono più gli “Itagliani“ e per evitare di far avvicinare di nuovo gli avvoltoi della finanza. Tra le molteplici superficiali annunciazioni, compare quella del JOBS ACT, un documento che chiede al Parlamento democraticamente eletto e tanto litigioso, zeppo di lobbisti senza regolamentazione, gattopardesco, una delega governativa ampissima, senza precedenti. Diventerà legge il 10 dicembre 2014, tra le proteste soffocate nelle piazze e i parlamentari ricattati pena scioglimento delle Camere. I nostri onorevoli sono notoriamente molto sensibili ai traslochi definitivi.
Ma cosa vuole fare Renzi per percorrere la via di Canossa col capo cosparso di cenere? Semplice: dimostrare che può durare fino a fine mandato e che ridurrà il rapporto debito/PIL, ma, soprattutto, che piegherà gli “Itagliani”. In una strategia degna di Schopenhauer, tra gli apparenti buoni propositi di estendere i diritti dei “tutelati dai sindacati” a tutti i lavoratori, specie quelli precarissimi, che lo voterebbero anche (sic!), insinua, in realtà, l’abbassamento dei diritti a tutti i lavoratori, in una sorta di equalizzazione verso il basso e, di fatto, smantellando lo Statuto dei Lavoratori.
Mascherata da semplificazione e razionalizzazione, la tutela dei lavoratori si ancorerà agli indici PIL, alla produttività e chissà a quale altra diavoleria d’ingegneria finanziaria che, in un Paese serio potrebbe essere un bene, ma in quello di Macchiavelli e Giuseppe Tomasi di Lampedusa si trasformerebbe certamente in un fardello per gli stessi lavoratori. Nell’articolo 4 si dichiara la volontà di creare un’agenzia del lavoro seria ed efficace, dimenticando che, quando gli uffici di collocamento erano gestiti dal sindacato ufficialmente, prima del fascismo, funzionavano e che, da Mussolini in poi, tutti si sono cimentati nella faraonica opera fallendo miseramente. Sembra che Giambattista Vico non l’abbia mai letto, Renzi. La Legge prevede la delega al Governo per meglio conciliare vita lavorativo e genitorialità, salvo indicare già che questo diritto costituzionale verrà subordinato “all’equilibrio famiglia/lavoro”. Una genitorialità condivisa con il datore di lavoro, insomma. Due punti positivi e di grande civiltà sono la possibile cessione di ferie e permessi ai colleghi bisognosi e la creazione di servizi per l’infanzia a carico delle aziende e dei fondi bilaterali. Scommetto, però, che questa sarà una delega che non si riuscirà ad attuare.
Il JOBS ACT è l’altra parte dello scalpo chiesto all’Italia dopo la Legge Fornero, due riforme che le lobby e le corporazioni, sempre loro, sono riuscite a caricare sulle spalle di chi per campare deve andare a lavorare ogni giorno. A meno che… il Governo italiano non ammazzi il Gattopardo definitivamente. Ma, forse, questo resterà un sogno.

di Gennaro Pezzurro
Dirigente della CGIL.

Rispondi