Team Refugees, una standing ovation che va oltre i risultati sportivi

Il gruppo presente a Rio è stato capace di conquistare il supporto di celebrità come Malala, Papa Francesco e l’immancabile Justin Trudeau e a conquistare l’attenzione della gente comune

Angela Caporale

yusra team refugees

Yusra Mardini ha tutto per conquistare l’affetto e il supporto del pubblico delle Olimpiadi di Rio. Giovanissima, una storia potentissima, telegenica. E’ stata la portabandiera della squadra alla cerimonia di apertura, quando il Maracana intero ha riservato ai dieci atleti del Team Refugees una standing ovation da brividi. Yusra rappresenta la faccia pulita della crisi dei rifugiati, quella cui possiamo sorridere dimenticando ritrosie e paure. Del resto, che male potrebbe mai fare una ragazza come lei?

Il Team Refugees è stato capace di conquistare il supporto di celebrità come Malala, P!ink, Papa Francesco e il premier canadese Justin Trudeau e l’attenzione della gente comune anche grazie a Yusra. Tuttavia, la sua è soltanto una delle dieci storie selezionate dal CIO per partecipare ai Giochi olimpici di Rio.

Facciamo un passo indietro. In marzo, Thomas Bach, presidente del Comitato Olimpico Internazionale, ha annunciato che, per la prima volta nella storia, avrebbe partecipato ai Giochi una squadra composta interamente da rifugiati. Forte dello spirito di pace e cooperazione che caratterizza le Olimpiadi moderne sin dalla loro istituzione, il Cio ha selezionato una rosa di 43 atleti candidati a diventare parte del team. Ne sono stati scelti 10, provenienti da Sud Sudan, Siria, Etiopia e Repubblica Democratica del Congo, per gareggiare in varie discipline: nuoto, atletica e judo. In 10 rappresentano una popolazione mondiale di 19 milioni di persone, sparse in tutti gli angoli del pianeta. In 10, grazie alle loro capacità atletiche e alle loro storie, hanno portato sul più importante palcoscenico sportivo un problema che non possiamo più ignorare. Nel 2012, l’anno delle Olimpiadi di Londra, i rifugiati e richiedenti asilo nel mondo erano 11 milioni. Quattro anni dopo, il loro numero è cresciuto notevolmente. Due le ragioni: da un lato, alcune crisi si sono inasprite, come quella siriana; dall’altro, sono sempre più numerosi i rifugiati che non possono tornare a casa, nemmeno dopo diversi anni trascorsi nei campi. James Nyang Chiengjiek, Rose Nathike Lokonyen, Paulo Loko- ro, Anjelina Lohalith, Yiech Biel, Yonas Kinde, Popole Misenga, Yolande Mabika, Rami Anis e Yusra Mardini rappresentano le differenti facce della medaglia (in questo caso tutt’altro che d’oro o di altri metalli preziosi). Rappresentano chi ha dovuto abbandonare lo sport e la propria casa per cercare rifugio in Europa, chi ha subìto abusi di ogni tipo proprio per “migliorare” le proprie prestazioni agonistiche e per questo è scappato, chi vive da anni nel limbo dei campi africani ed è riuscito ad uscirne solo grazie all’intuizione di un talento.

team refugees rio 2016

I rifugiati non sono soltanto i Siriani. Il Team Refugees ha l’occasione di spiegarlo ad una platea vastissima. Ha l’opportunità di rompere le barriere e indebolire i pregiudizi. L’obiettivo è quello di mostrare che i rifugiati possono essere un valore aggiunto per qualsiasi Paese li ospiti e, magari, addirittura ispirare una pressione sui politici affinché cambino la propria strategia, sostituendo, alla chiusura, l’accoglienza. Soprattutto, la presenza del Team Refugees è il fallimento della comunità internazionale. Se il sistema funzionasse, non ci sarebbe bisogno di una squadra del genere, né del clamore mediatico generatosi intorno ad essa. Se il sistema funzionasse a livello globale, lo status di rifugiato non si starebbe trasformando in qualcosa di semi-permanente che incastra le persone in una situazione instabile, in campi stracolmi nei quali le condizioni di vita sono al limite dell’accettabile. “La ragione per cui quest’anno c’è un Team Rifugiati – spiega Dara Lind su Vox – è che “rifugiato” dovrebbe essere un’etichetta temporanea, ma sta diventando per molte, moltissime persone, l’unica a cui possono ambire.“

Ben vengano, allora, l’attenzione mediatica, la solidarietà e la commozione senza frontiere, l’affetto spassionato. Ma finché il mondo non amerà i rifugiati (che anche in questi giorni muoiono in mare e nel campi sovraffollati in Africa, vengono torturati nell’isola di Nauru alle porte dell’Australia, subiscono violenze e si scontrano contro confini e barriere alle porte dell’Europa), l’obiettivo del Cio, dell’UNHCR e del Team Refugees non sarà conquistato. Dopo le fanfare e la commozione, dovranno seguire azioni e non parole. Le Olimpiadi di Rio ci offrono l’opportunità di avvicinarci a questo gruppo di rifugiati, di scoprire le loro vicende personali, di seguire le loro gesta atletiche, di trattarli come persone, esseri umani, esattamente uguali a noi. Facciamo tesoro di questa occasione, senza dimenticare che una Yursa Mardini o un Paulo Lokoro potrebbero essere ospitati nel nostro Comune, nei centri sparsi in tutta l’Europa, esattamente accanto a noi.

Angela Caporale, giornalista, caporedattrice di SocialNews

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