Scrivere senza mostrarsi nella società dell’apparire

Cosa accomuna il caso di Elena Ferrante ed il mestiere di un ghostwriter?

Arturo Cannarozzo

“Quello che apprezzo di più, soprattutto per quanto riguarda i romanzi, è non riuscire a comprenderli completamente. Non nutro alcun interesse per le opere di cui mi sembra di capire tutto.” A parlare, in questo stralcio del romanzo 1Q84, di Haruki Murakami, è Komatsu, uno spregiudicato editore che procura a Kawana Tengo, l’introverso insegnante di matematica protagonista della storia, un lavoro da ghostwriter. L’incarico è al limite della legalità perché l’opera verrà presentata ad un concorso letterario destinato a giovani esordienti. Così, Kawana si ritrova a riscrivere “La crisalide d’aria”.
Oltre ad essere uno dei capolavori di Haruki Murakami, 1Q84 esprime anche un’intensa riflessione sulla scrittura.
È interessante che una frase simile venga rivolta ad un ghostwriter, soprattutto se confrontata con la definizione di questo mestiere riportata sul sito www.ghostwriters-ink.com: “Taking someone’s thoughts, ideas, and dreams and developing into an enjoyable and informative manuscript” (“Comprendere i pensieri, le idee ed i sogni di un altro e plasmarli in un manoscritto godibile ed istruttivo”).
Nel libro di Murakami, il giovane ghostwriter riscrive un’opera che non può comprendere totalmente per la natura stessa del manoscritto propostogli. “1Q84 è, tra le altre cose, anche un’allegoria dell’invenzione letteraria come ri-creazione di mondi in cui l’individuo possa affermare la propria identità oltre le convenzioni. Sia Tengo, sia Winston Smith – il protagonista del romanzo orwelliano (1984, a cui si ispira n.d.a) – hanno il compito di correggere libri scritti da altri; e, pur nella diversità del quadro ideologico e degli esiti narrativi, le vite di entrambi hanno una svolta drammatica a causa di un libro: La
crisalide d’aria per Tengo, Teoria e prassi del collettivismo oligarchico per Smith” (Leggere Murakami. Note su 1Q84, 19 aprile 2013. Pubblicato da Le parole e le cose).


Superando questa emblematica rappresentazione del mestiere del ghostwriter, e delle difficoltà insite nell’entrare nelle vite degli altri che consente a Murakami questo gioco di specchi postmoderno, cos’è esattamente il mestiere di un ghostwriter?
Il Post (http://www.ilpost.it/2016/05/10/ghostwriterchi-sono/) li definisce così: “I ghostwriter sono una categoria professionale invisibile per mandato. Da una ventina d’anni – da quando, cioè, i libri di celebrities incominciarono a vendere tanto e prima che, youtuber a parte, le vendite calassero – la loro importanza in editoria è cresciuta, senza che questa crescita si sia tradotta in un maggior riconoscimento. Eppure, il loro lavoro ha creato un genere editoriale nuovo e paradossale, che meriterebbe di essere considerato a sé: quello dell’autobiografia altrui o, se preferite, della biografia in prima persona. La percentuale di libri di persone famose non scritti da chi li firma è quasi del 100%”.
Quanto può guadagnare un ghostwriter? “Un libro medio di una grande casa editrice viene pagato 4-5.000 euro, quelle più piccole arrivano ad offrirne 1.800-2.000, ma si racconta di libri scritti per paghe da fame: anche 500 euro lordi per un libro di 200 pagine. Nessuno indica casi concreti perché, in questo campo, è vietato fare esempi e apparire.”
Che tipo di lavori vengono affidati ad un ghostwriter in Italia?

• Biografie, o autobiografie di vite altrui. In questi casi, il ghostwriter scrive della vita di persone già famose curando il rapporto con le stesse, non sempre facilissimo.
• Firme di rafforzo. Ad esempio, Gianni Riotta ha intervistato Xavier Zanetti, ex capitano dell’Inter. In questi casi, l’anonimato scompare, ma i compensi aumentano: il nome del ghostwriter aiuterà il libro ad entrare nel circuito delle recensioni e a guadagnare credibilità.
• In altri casi si tratta di opere su commissione (imprenditori, persone che vogliono ad ogni costo che la loro storia venga tramandata). In questa fattispecie, è d’obbligo che il ghostwriter curi molto il rapporto con il committente, soprattutto se l’opera è già stata scritta e deve essere riscritta. Qui il ghostwriter si trova ad affrontare i gusti e la sensibilità del committente. Talvolta deve stare attento a non irritarlo con i cambiamenti che apporta. È un sottile gioco psicologico, oltre che di stile. Non sempre può andare a buon fine.
• Soprattutto negli USA, dove il mestiere occupa una fetta di mercato più consistente, c’è la tendenza ad impiegarne
anche più d’uno nella produzione di serie di libri (fiction) firmati con uno pseudonimo. Si giunge, così, al caso di V. C. Andrews, affermata scrittrice, che assoldò Andrew Neiderman per scrivere a nome suo dopo la sua morte e continuare, così, la saga gotico-familiare che l’aveva portata al successo.
• Sempre negli USA, si fa largo uso dei ghostwriter anche nel cinema ed in tv per le sceneggiature.

Quindi, cosa porta un ghostwriter a scegliere questa professione? Un mero calcolo economico/editoriale o esistono veramente persone come Kawana Tengo? Il quale, a detta dello stesso personaggio, ghostwriter lo è diventato per caso. Ama scrivere, è bravo, ma non è riuscito ad andare oltre ad un discreto successo. Poi, con la riscrittura de “La crisalide dell’aria”, la sua vita cambia completamente, al punto che un investigatore privato si mette sulle sue tracce. Le assonanze con una vicenda editoriale realmente esistita in Italia sono molteplici. Sto parlando di Elena Ferrante.


So di accostare due scritture totalmente diverse, un personaggio di un romanzo ed uno pseudonimo. Ma gli elementi in comune sono diversi: “Cara Sandra, (…) ti voglio solo confidare che la mia è una piccola scommessa con me stessa, con le mie convinzioni. Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che siano stati scritti. Se hanno qualcosa da raccontare, troveranno, presto o tardi, lettori; se no, no. Esempi ce ne sono abbastanza. Amo molto quei misteriosissimi volumi d’epoca antica e moderna che non hanno un autore certo, ma hanno avuto e hanno una loro vita intensa. Mi sembrano una sorta di portento notturno, come quando, da piccola, aspettavo i doni della Befana, andavo a letto agitatissima e la mattina mi svegliavo e i doni c’erano, ma la Befana nessuno l’aveva vista. (…) Mi è rimasta questa
voglia infantile di meraviglie, piccole o grandi, ci credo ancora” Elena Ferrante, 21 settembre 1991, da “La frantumaglia”,
nuova Edizione e/o. Con queste parole, Elena Ferrante aveva comunicato ai suoi editori la volontà di non apparire, peraltro da loro sempre rispettata. Il libro “La frantumaglia” (2003) è nato per dare ai lettori che la amano un’identità con cui
confrontarsi. Nel 1992, “L’amore molesto” vinse il premio Procida e venne selezionato allo Strega.

Non fu un caso editoriale: i libri che seguirono furono uno più bello dell’altro. Da “I giorni dell’abbandono” (2002) Roberto Faenza trasse
l’omonimo film, così come Martone ne aveva realizzato uno dal primo, fino ad arrivare alla quadrilogia “L’amica geniale”. Dal 2011 al 2014 uscì ogni anno un capolavoro legato a questo “nomen fictum”.
Quest’anno, il settimanale Time ha inserito questo nome di fantasia tra le 100 persone più influenti al mondo. Ovviamente, tanto anonimato non poteva essere lasciato in pace: “Tra le ipotesi fatte sulla sua vera identità ci sono quelle di Anita Raja, traduttrice e saggista partenopea, moglie di Domenico Starnone, di Starnone stesso, di Goffredo Fofi, degli editori Sandro
Ferri e Sandra Ozzola (delle Edizioni e/o). Infine, vi è l’ipotesi del critico e romanziere Marco Santagata, che ha tentato di svelare l’identità della Ferrante.
A suo parere, dietro di essa si celerebbe la storica normalista Marcella Marmo, docente all’Università di Napoli”.
Il 2 ottobre scorso, Claudio Gatti, del Sole 24ore (http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-10-02/ elena-ferrante-tracce-dell-autrice-ritrovata-105611. shtml?uuid=ADEqsgUB&refresh_ce=1) ha pubblicato un’inchiesta che riconduce l’identità di Elena Ferrante alla persona di Anita Raja.
Ed è a questo punto che mi domando: ma se anche fosse? Personalmente, leggendo i suoi libri, mi sembra di beneficiare di un dialogo con la scrittrice posto su un piano simile a quello mostrato da Murakami con la sua allegoria. L’immedesimazione non basta a spiegarlo. C’è un rapporto di complicità quasi metafisica. Interiorizzi una voce che ti guida pagina dopo pagina. Ridi assieme a lei, la condanni e la perdoni, ti lasci ammaliare dal suo modo di pensare. Che importa sapere quanto guadagna, chi è, se le piace mentire? A me basta fare mia la smarginatura celata tra le sue pagine.
Con questo articolo spero di avere proposto più domande che risposte e di aver indagato diversi modi di scrivere senza mostrarsi nella società dell’apparire. Come dice Elena Ferrante ne “La Frantumaglia”, “Non dover apparire genera uno spazio di libertà creativa assoluta”. Che va rispettato.

Arturo Cannarozzo, progettista, ghostwriter e collaboratore di SocialNews

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