Nel limbo di Idomeni, tra Grecia e Macedonia

Il giovane free-lance marchigiano Matthias Canapini ha effettuato un lungo viaggio dall’Italia all’Estremo Oriente esclusivamente con treni e autobus. Ed ha raccolto le testimonianze di chi vede l’Europa come un rifugio sicuro da guerre, fame e dittature

Matthias Canapini

Schermata 2016-02-19 a 18.46.15Le tende del campo profughi di Idomenei, confine greco-macedone, sono decorate con scritte e disegni infantili. Alcune riportano i nomi dei piccoli migranti ignari: Rama, Yazed, Zin, Hassan.
Nei campi attorno, sparpagliati qua e là e mangiati dalla terra, puoi trovare vestiti, peluche, scarpe, i segni tangibili della fuga precipitosa verso una presunta libertà (?). Circa 5.000 persone al giorno superano questo confine posto a sud, proseguendo la rotta nei Balcani per poi raggiungere il cuore dell’Europa. 5.000. Ogni giorno. Una marea umana perenne. File chilometriche di pullman.
Bambini, giovani, donne, uomini, anziani in fuga da Iraq, Iran, Afganistan, Siria, una piccola percentuale dallo Yemen, ma anche da Nord e Centro Africa. Un pezzo di pane, una zuppa, qualche coperta e poi via, verso Nord.

Abdel è scappato da Aleppo insieme ai suoi due fratelli maggiori. Hanno raggiunto per miracolo l’isola di Lesvos. “Dove siete diretti?” “Non lo sappiamo, in qualsiasi luogo più fortunato di casa nostra”. Ahmed, 30 anni, è fuggito dalle campagne di Damasco insieme alla moglie e al piccolo Firas, un anno appena. Imbarcati su un gommone malandato, hanno raggiunto le coste greche: “È stato difficile, ma almeno non ho dovuto gettare in mare il corpo di mio figlio… Molte persone sono morte nella traversata”. Le vette sono innevate e la tensione è palpabile. Le attese infinite.
È un esodo senza fine. A due passi da noi. Ora. Oltre un malandato cancello di metallo si accalcano centinaia di persone, spingendo e tentando di farsi spazio tra corpi altrui, sassi e polvere.
Qualche militare li osserva, disinteressato dietro a recinzioni di ferro e filo spinato. L’onda umana continua a macinare. I confini stanno implodendo. Man mano che ci si avvicina alla fortezza Europa, i controlli si fanno sempre più pressanti. Entrano in gioco le forze speciali, coi loro grandi fucili penzolanti su un fianco. L’ostilità galleggia nell’aria. Dicono che solo i rifugiati provenienti da conflitti armati in corso potranno passare. Per tutti gli altri, testa china ed il cammino finisce.

Forse, Abdel è uno dei “fortunati”. 23 anni, ha perso la madre e la fidanzata durante un bombardamento nella città di Homs. Si è pagato il viaggio fino a qui lavorando in Turchia, pagando tantissimi soldi agli scafisti turchi per imbarcarsi, diretto all’isola di Lesvos.
La barca è affondata con 45 persone a bordo, ma lui, in qualche modo, ha raggiunto il confine serbo, trascorrendo pure 3 settimane in carcere per un motivo ancora sconosciuto. Nel tendone dell’Unicef sono appesi tanti disegni. Molti riportano lo sguardo ferito dei bambini in fuga: una casa bombardata, un barcone colmo di pupi, una fila di ometti in coda per il pane.
La semplicità dei bambini disarma sempre.

Il treno si mette in moto con un fischio. Macedonia, Serbia, Croazia.
Quante storie saranno passate su questi binari? Un esodo senza fine. Ancora. Il treno macina lentamente chilometri attraverso pianure brulle e nebbiose. La pioggia cade fitta.
Tre famiglie numerose si dividono lo scompartimento invaso da noccioline e umidità.
Ciascuna ha più di cinque figli a testa, di età compresa tra i 4 ed i 15 anni. Due famiglie provengono dalle campagne di Kabul, la rimanente dai distretti di Aleppo. Raccontano le difficoltà lungo il percorso, la fuga precipitosa per scappare dai barili incendiari di Assad o dalla presenza massiccia del Califfato. Molti non vogliono raccontare ciò che i loro occhi hanno visto e, forse, è meglio cosi. Un po’ per tutti. Bastano quattro semplici pile per far funzionare i giocattoli elettronici dei bambini, inutilizzati ormai da molto tempo. Ciò basta anche per sollevare il morale di grandi e piccoli, aspettando di raggiungere il confine croato, gremito di ulteriori profughi e migranti, ma anche di poliziotti, di certo non molto gentili.
Nis. Confine. È già buio. Veniamo strattonati malamente e incanalati nel flusso. Qualche famiglia si divide, volano urla e spintoni. Mostro il passaporto e tutto finisce. Vengo sbattuto indietro. Gli altri proseguono. La storia finisce qui. La differenza tra rifugiati e cittadini europei. Un documento.

Io continuo a vedere solo persone in cerca di aiuto. Ricordate la foto del piccolo Aylan, affogato vicino alle coste turche? Quando il mondo ha urlato “mai più”, “ora basta”, “oddio”? Da quel giorno ad oggi, per le stesse circostanze sono morti più di 80 bambini, senza contare gli adulti.
In questi giorni ho visto migliaia di persone in fuga da Siria, Iraq e Afganistan. Migliaia.
Strattonati, rinchiusi tra barricate e transenne, in coda sotto la pioggia aspettando di essere registrati per poi continuare il loro cammino verso la fortezza Europa. Donne incinte, uomini, bambini, giovani, anziani. Come Ziarmal, 29 anni, la moglie Negaynah, 20, e la piccola Fareeha, 11 mesi soltanto. Scappati dall’Afganistan a piedi, dopo quattro mesi di cammino sono arrivati a Belgrado.
Tante violenze lungo la strada, soprattutto tra Grecia e Bulgaria. Non starò qui a sparare sentenze, né a puntare il dito. Ci sarà tempo per raccontare. Ciò per dirvi che possiamo essere verdi, blu, neri, bianchi o gialli, possiamo essere poveri o ricchi, vecchi o giovani, di destra o di sinistra (?), stronzi o simpatici, ma una verità rimane: la maggior parte di queste persone sono in fuga da guerre e conflitti armati. Più che un’emergenza, forse è la conseguenza di un meccanismo che noi stessi mettiamo in moto ogni giorno. Per favore, non continuiamo a far finta che tutto vada bene. Si parla di un esodo pazzesco a 3-4 ore di macchina da noi. Non “svegliamoci” solo quando certe tematiche vengono a bussare a casa nostra. Guerre, stupri, bombardamenti, violenze accadono sempre.
Se non le vediamo, o non ce le mostrano, non significa che non accadono, no?

Matthias Canapini, fotoreporter

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