Nel cuore del Sud Sudan

La Repubblica del Sud Sudan. Si è arrivati a questa soluzione dopo due guerre civili, centinaia di migliaia di morti, carestie e saccheggi

Claudio Tommasini

villaggioRiassumere in poche righe la sanguinosa storia del Sudan è come cercare di concentrare in una pagina tutta l’enciclopedia Treccani. In sintesi, il nord arabo e musulmano ed il sud africano e cristiano riescono, dopo due guerre civili, iniziate nel 1955 e finite con un accordo di pace nel 2005, a trovare una soluzione sulla divisione del Paese. Tuttavia, anche con l’accordo di pace in atto, le violenze non si fermano ed i problemi non mancano. Nel nord-ovest della Nazione, sul confine con Sudan e Ciad, i guerrieri janjawid (dall’arabo jinn-diavolo e jawad-cavallo) continuano le loro scorrerie, uccidendo e razziando ovunque e perpetrando stupri sistematici. Nel nuovo Paese, le differenze tribali si fanno sentire. Convivono circa 60 gruppi etnici diversi. La maggioranza della popolazione è Dinka. Seguono i Nuer. Dinka e Nuer non riescono a sopportarsi. L’economia, basata quasi esclusivamente sull’estrazione di petrolio, patisce il problema della mancanza di condotte che portino il greggio alla costa. L’unica esistente conduce a Port Sudan. In Sudan. Il nuovo armed boyStato deve pagare il balzello al vecchio.

Un rapporto delle Nazioni Unite del 2010 rivela che il 45% del bilancio dello Stato è garantito dagli investimenti delle numerose organizzazioni umanitarie operanti nel Paese.
Di ciò che resta, il 98% deriva dalle estrazioni petrolifere. Circa l’85% della popolazione vive in zone rurali. Si dedica quasi esclusivamente alla pastorizia. Frutta e verdura vengono importate da Uganda e Kenia, con elevati costi per coloro i quali possono permettersi di acquistarle. Alla fine del 2013, uno scontro tra il Presidente, Salva Kiir, di etnia Dinka ed il vicepresidente Riek Machar, Nuer, origina una nuova guerra civile. Nella sola prima settimana, nella capitale Juba i morti si contano a migliaia e l’esercito si divide tra Dinka e Nuer. L’intero Paese risente di questa situazione. Si creano tanti piccoli focolai di guerra. L’esercito è formato quasi esclusivamente da Dinka e Nuer, così nascono due fazioni con le stessa divise: SPLA e SPLA IO (in opposition). Le armi vengono usate indiscriminatamente. Anche coloro i quali contestavano il Governo trovano in questa guerra una motivazione per partecipare alla lotta.villaggio2

Com’è la situazione adesso?
Dopo due anni di battaglie incessanti, violenze e stupri, nell’agosto scorso, in occasione della visita ufficiale di Obama in Kenia, la comunità internazionale ha sollecitato un accordo di pace tra i due contendenti. Kiir e Machar vivono in grandi alberghi o in residence di lusso e mandano alla morte i propri sostenitori. L’accordo è stato firmato il 17 agosto 2015 ad Addis Abeba, Etiopia. I problemi, però, permangono irrisolti. In questi anni sono sorti diversi campi profughi.
I maggiori si trovano a Malakal (50.000 persone) e Bentiu (120.000 persone). Sono sottoposti al controllo delle Nazioni Unite. Sul territorio è presente una forza multinazionale di pace, incapace, però, di arginare le violenze.
Circa 1,7 milioni di persone hanno perso la casa e sono state costrette a sfollare, mentre circa 500.000, rientrate in Patria dopo l’accordo di pace, sono state nuovamente costrette a riparare nei Paesi limitrofi (Uganda, Kenia, Sudan).
Si calcola che circa 800.000 persone siano rifugiati all’interno del loro stesso Paese. Numeri… Ma bisogna trovarsi sul territorio per comprendere davvero la situazione. Le famiglie si sono disgregate perdendo i contatti tra i diversi membri, padri e figli maggiori sono stati mandati in guerra in uno Stato nel quale le comunicazioni telefoniche sono quasi inesistenti e i cellulari funzionano solo nelle città controllate dal Governo.bambino villaggio
Moltissime donne, rimaste nelle zone rurali per accudire i figli minori e le mandrie, hanno subito sistematiche violenze: alcune sono state uccise, altre rapite ed utilizzate come cuoche o portatrici. Nei casi più fortunati sono state liberate dietro il pagamento di somme di denaro. I bovini, invece, sono stati requisiti dalla fazione armata prevalente.

Sulle mandrie di vacche e sulla composizione della società rurale del Sud Sudan va aperta una piccola parentesi. La vacca rappresenta un’unità di valore universale. Una moglie costa, a seconda del livello della famiglia, dalle 60 alle 100 vacche. A titolo di risarcimento, ad esempio in caso di omicidio, oltre a finire in prigione il colpevole deve anche corrispondere alla controparte una certa quantità di vacche.

I livelli sociali derivano in parte dall’età. Gli adolescenti sono impiegati come guerrieri e costituiscono la fascia più pericolosa. Dopo la pubertà, non possedendo vacche per combinare un matrimonio (sposarsi e fare figli sono le priorità per un ragazzo), gli adolescenti e le loro famiglie cercano di procurarsele in ogni modo. In questo, la guerra aiuta.

Nella stagione secca, le persone lasciano il villaggio in cerca di luoghi isolati ove alimentare il bestiame con erba fresca ed acqua. Senza la protezione del villaggio, gli allevatori subiscono gli attacchi finalizzati a rubare la vacche e a rapire donne e bambini. È questa la moneta di scambio nelle contrattazioni.
Questa situazione determina grande incertezza (verrà qualcuno di notte? si sparerà? mangeremo domani?) Il Paese sta vivendo una profonda crisi economica. I pozzi petroliferi sono stati dati alle fiamme, quindi la produzione è ferma. Solo alcuni imprenditori residenti nelle grandi città possiedono risorse sufficienti per alimentarsi in modo adeguato.bambini-vacche

L’alimento più diffuso nelle zone rurali, il sorgo, viene sistematicamente bruciato o rubato da qualsiasi persona possieda un fucile. La soluzione è, quindi, cercare fortuna nelle grandi città. Qui, però, occorrono i soldi. L’alternativa è il campo profughi, nel quale, comunque, la vita permane molto difficile.
In teoria, nei campi profughi la distribuzione del cibo viene regolata iscrivendosi in una lista che garantisce una certa quantità di cibo mensile gratuita fornita dalle organizzazioni umanitarie internazionali. Le capanne sono costruite da altre organizzazioni, ed altre, ancora, si occupano di assistenza sanitaria, approvvigionamento idrico, sostegno psicologico, ricerca dei parenti dispersi, istruzione per i bambini. La sicurezza, però, non è garantita nemmeno in questi spazi. All’interno dei campi circolano molte armi, la tensione è sempre elevata e avvengono attacchi da parte di milizie armate. Come sempre, a farne le spese sono i soggetti più deboli. In realtà, l’acqua è razionata, come il cibo, l’assistenza sanitaria è episodica e le campagne di vaccinazione non vengono svolte capillarmente.

Quello descritto è un quadro generale. Ma cosa ne pensa, a livello personale, un operatore umanitario? All’interno di un campo profughi regna una confusione totale. Organizzare un’attività significa uno sforzo fisico e psicologico enorme. Non sempre c’è acqua per tutti. Mancano posti letto in ospedale. Le ore vengono scandite da un’emergenza sanitaria (ad esempio, casi di colera) o umanitaria (un attacco armato). Si vive con la radio accesa 24 ore al giorno e 7 giorni alla settimana. Qualsiasi spostamento deve essere autorizzato e la destinazione approvata. Con il buio non si può muoversi, se non per urgenze e in macchina. Le condizioni di vita dei profughi sono al limite. Gli operatori possono essere convocati in qualsiasi momento per affrontare un’emergenza.

Ogni giorno file interminabili di persone intente a riempire una tanica di acqua o in coda per la distribuzione del cibo. Un profondo senso di impotenza. Spesso si passano ore interminabili dentro i bunker perché ci sono attacchi in corso. Si spera non ci siano tanti morti. Si spera non ci siano tanti feriti perché l’ospedale è al collasso. Tutto questo ad una temperatura media prossima ai 40 gradi.

In Sud Sudan la composizione del suolo non consente una corretta gestione delle acque. Si chiama cotton soil. Argilla nera. Non assorbe nemmeno una goccia d’acqua. Ad ogni pioggia si crea un pantano scivoloso, ma l’acqua non viene assorbita.
Si pensi, poi, alla quantità di acque nere prodotte da un campo profughi di 120.000 persone… Le latrine devono essere vuotate con le pompe prima che tracimino… Gli scarichi vengono portati nei bacini di depurazione. A certe temperature, si tratta di piane mefitiche…

distribuzione zanzariereSi vive con l’incognita se l’aereo con i rifornimenti potrà atterrare. Impensabile la strada: troppi chilometri, agguati, milizie armate senza bandiera che si appropriano di qualsiasi cosa. Gli stessi aeroporti (strisce di terra nel nulla) rappresentano, spesso, un facile bersaglio.

Nelle cliniche mobili esterne al campo, invece, si possono vivere momenti di pace e vedere la vera faccia del Sud Sudan. Ma anche questi momenti sono effimeri. La situazione può mutare in un attimo.
Per allestire una clinica mobile e riorganizzare alcuni reparti dell’ospedale, abbiamo dovuto convivere in tre per quasi due mesi dentro un bunker. Ogni giorno abbiamo dovuto negoziare con i vari contendenti il passaggio dei nostri fuoristrada. Solo dopo l’autorizzazione da parte dei nostri coordinatori abbiamo potuto iniziare le attività nei vaNFIri villaggi. Abbiamo prestato assistenza soprattutto a civili con ferite di arma da fuoco.
È un duro colpo al cuore vedere donne e bambini, che arrivano spesso portati dentro un lenzuolo, feriti da pallottole solo perché qualsiasi cosa si muova nel bush può essere pericolosa. Prima si spara, poi si controlla.
La maggior parte delle ferite è negli arti inferiori: prima di sparare, i combattenti si buttano a terra. Ciò non vale per i bambini: vista la loro altezza inferiore, le ferite sono situate più in alto e ledono gli organi interni.

Spesso, per raggiungere l’ospedale, i feriti hanno camminato per giorni, naturalmente solo di notte. I loro arti sono gonfi e, senza una sala operatoria, sai che sarà difficile che queste persone riescano a sopravvivere. Ci si attacca ai telefoni satellitari per richiedere un elicottero o un aereo che possa trasportare i feriti presso un ospedale dotato di sala operatoria attrezzata. Anche questa è una negoziazione. Se si riesce nell’intento, bisogna uscire allo scoperto ed aspettare l’aereo. Caricare i feriti a bordo va fatto – comprensibilmente – nel minor tempo possibile. L’aereo a terra è vulnerabile. Deve sparire in fretta in cielo.

Dopo 15 mesi trascorsi in questo Paese le mie sensazioni sono veramente contrastanti. So di aver svolto un buon servizio. Abbiamo salvato vite, portato acqua nei villaggi privi di ricambi per far funzionare le pompe, offerto corsi di igiene che aiuteranno la gente a superare malattie causate unicamente dalla sporcizia, organizzato campagne di vaccinazioni. Al tempo stesso, ho perso degli amici, di altri non ho più notizie e la sensazione personale è di non essere riuscito a fare abbastanza per questo popolo.

not food distribuition NFIChiudo raccontando un piccolo aneddoto. Tornato nella mia città alla fine dello scorso anno, in prossimità delle feste natalizie, come spesso succede, dei ragazzini hanno iniziato a giocare con i petardi. Mi trovavo in compagnia di amici a festeggiare il mio ritorno. Era mia intenzione anche riprendere qualche chilo (ne ho persi quasi 15 in questa missione). Allo scoppio del primo petardo mi sono buttato sotto una macchina per proteggermi. Una reazione automatica, ma completamente fuori luogo in una città italiana. Ricordo le facce dei miei amici. Immediatamente hanno iniziato a prendermi in giro. Poi, uno ha guardato bene la mia faccia ed ha visto i miei occhi spalancati ed adrenalinici per via dello stress. Mi ha chiesto scusa. In quel momento ho capito che la guerra te la porti dietro. Non bastano migliaia di chilometri a fartela dimenticare.

Claudio Tommasini, operatore umanitario e fotografo

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