Luce sui passi che calcano la rotta dei Balcani

In Ungheria, per ripensare insieme il concetto di migrante viaggiando sulla rotta dei Balcani

Francesca Carbone

Tai di Cadore è un paesino di 2.000 abitanti. 2.000, come le anime che, in meno di un’ora, sono sfilate silenziose e affaticate in una mattina di ottobre, prima dell’alba, nei pressi di Harmiça, confine croato-sloveno. Un intero paese in movimento, anche se, in quell’occasione, le persone in fuga provenivano da luoghi molto lontani fra loro. Siriani, Afghani, Iracheni, ma anche Pakistani, Somali, Bengalesi, Nepalesi e altri di chissà quale nazionalità. Si trovavano là perché appena scaricati da un treno che, a luci spente, li aveva accompagnati dal sud della Croazia verso la Slovenia. Da quando l’Ungheria ha ufficialmente chiuso le frontiere, la rotta balcanica è leggermente mutata, coinvolgendo Croazia e Slovenia come nuovi Paesi di transito. In ottobre, i flussi in quella zona di confine erano molto consistenti: migliaia di persone ogni 3 – 5 ore.

L’associazione di volontariato Ospiti in Arrivo, impegnata nel prestare la prima assistenza a favore delle persone richiedenti protezione internazionale a Udine, era presente in loco con l’intento di garantire un supporto umanitario – in termini di beni e di capitale umano – all’interno di una staffetta di volontari organizzati in un gruppo di dimensione internazionale. L’aiuto era strutturato in forma di distribuzione rapida di alimenti (zuppa, the caldo, panini, frutta e barrette energetiche), col benestare delle forze dell’ordine croate che incalzavano ed incanalavano il flusso di migranti oltre il fiume Sutla, in Slovenia. I viaggi di Ospiti in Arrivo lungo la rotta dei migranti via terra sono cominciati con un primo sopralluogo in Ungheria, dalle stazioni ferroviarie di Budapest al campo governativo di Debrecen fino ai campi informali costituiti lungo i binari, all’altezza del varco nel tristemente noto confine di filo spinato. La prima esplorazione si è conclusa nel parco situato davanti alla stazione di Belgrado, dov’erano accampate migliaia di persone, uomini, donne e bambini. Il secondo viaggio ha avuto luogo nei confini croati, prima a sud, a Tovarnik, poi a nord, nei pressi di Harmiça, poco lontani dalla nostra Regione e testimoni delle sempre più difficili condizioni di transito dei migranti.

Da sud a nord, il viaggio dei migranti tocca Paesi diversi, eppure, per certi aspetti, molto simili. Migliaia di passi, anche piccolissimi, calcano la strada lungo i binari dei treni, simboli ormai superati di mobilità e progresso. Ciò che ritorna in questi luoghi sono le stazioni: Belgrado, Budapest, Udine. Sono proprio le stazioni dei treni a contenere i nuovi ospiti. Col pretesto di contrastare il disordine, e in attesa di soluzioni migliori, si creano punti di bivacco, in realtà dei non-luoghi, spazi di esclusione ed eccezione. Le persone vivono questi luoghi ai margini della società, in un certo senso nascosti agli occhi di chi abita la città. Ad Udine, per esempio, il sottopasso della stazione si popola solo di notte, quando ormai i passanti sono rari. I migranti sono poi costretti a liberare lo spazio alle prime ore del mattino. Si tratta di spazi apparentemente temporanei, ma che permangono nel tempo, legittimati dal sistema di accoglienza dei singoli Stati. Luoghi di attesa, nei quali si decide e si pianifica il proprio percorso migratorio, anche indirizzati dagli “smugglers”, i trafficanti arricchitisi sull’incertezza di chi fugge, come succede a Budapest.

Altro aspetto ricorrente lungo la rotta dei Balcani è il filo sottile che lega il bisogno di sicurezza e di ordine pubblico con l’immagine della violenza e la militarizzazione dello spazio pubblico, in tutte le sue forme. Al confine serbo-ungherese, a quello croato-sloveno, in qualsiasi punto istituzionalizzato di raccolta dei migranti, chi rappresenta lo Stato – che, stando alle varie convenzioni firmate in altra epoca, dovrebbe essere il primo responsabile dell’aiuto umanitario – è l’agente in divisa, spesso armato. Per non parlare dei cingolati parcheggiati accanto ai punti di raccolta e ristoro. Gli stessi spazi di prima “accoglienza” nelle città erano caserme. Si pensi al campo di Debrecen o alla Cavarzerani a Udine. In questo senso, gli Stati coinvolti, molti membri dell’Unione Europea, rivelano tutta la loro inconsistenza politica, ergendosi a protettori di interessi privati, nazionalistici, ribadendo in maniera anacronistica la prevalenza dei concetti di sovranità e territorio e fomentando, sulla base di questi, la distinzione amico/nemico. Lo straniero è più un concetto che una persona reale, colui il quale è demograficamente di troppo, che arriva da fuori. Definizioni semplicistiche e fuori tempo.

Finora gli Stati interessati dalla rotta balcanica hanno dimostrato di agire in una logica di sicurezza e protezione dei propri confini, mobilitando in maniera spesso mediatica il binomio di concetti “cittadinanza” e “protezione”. Anche alla luce di quanto accaduto a Parigi, essere cittadino oggi significa innanzitutto poter beneficiare della sorveglianza e della protezione del proprio Paese e di pretenderla. Ma non ci si interroga su cosa significhi vivere in un Paese che non può più o non vuole proteggerti. Quello che si nota osservando il fenomeno migratorio lungo la rotta balcanica è proprio la concretizzazione di questo elogio dell’individualismo. Che cecità e mancanza di lungimiranza nel concedere che i singoli Stati gestiscano – loro malgrado, a volte – a livello locale ed indipendente i flussi di un mondo globale in mutamento! Forse se ne sottovaluta la portata? O magari non ci si sofferma in maniera adeguata sul senso del diritto alla mobilità in epoca contemporanea.

Di ciò sono testimonianza gli ultimi avvenimenti lungo la rotta, che ora coinvolgono, in particolare, il confine greco-macedone e la cittadina di Idomeni. La Macedonia pratica una selezione degli accessi esclusivamente in base al Paese di provenienza del migrante: se Siriano, Afghano o Iracheno, il migrante è abbastanza profugo da poter proseguire il proprio viaggio. Altrimenti, non c’è speranza. Lontani dall’immaginare una condizione cosmopolita, definita da diritti garantiti agli individui perché esseri umani, prima che cittadini, assistiamo all’esacerbazione della logica dell’esclusione. Nuove forme di razzismo prendono piede anche nei discorsi di politici e personaggi pubblici. Si parla di richiedenti asilo di serie A e di serie B, di migranti che, se per motivi economici, hanno meno diritto all’accoglienza di coloro i quali fuggono dalla guerra. Siamo ancora lontani dall’accettare che i cambiamenti climatici, i disastri ambientali, la desertificazione, provocano oggi più profughi delle guerre.

Eppure basterebbe cambiare prospettiva, ripensando al concetto di “migrante” in funzione del senso di appartenenza dell’individuo, piuttosto che della sua provenienza. La geografia diventerebbe così una nozione personale e soggettiva, definita dall’errare del corpo e dal rimescolarsi delle relazioni, prima che da confini artificialmente tracciati tra Stati. In quest’ottica, migrante è colui il quale non abbandona mai la libertà di “andare e venire”, facendo dell’avventura il linguaggio più adatto per fronteggiare l’incertezza e i pericoli. Una sensazione non troppo estranea ai giovani europei d’oggi. A pensarci bene, una condizione sempre più ordinaria in un mondo cosmopolita.

Francesca Carbone, operatrice dell’immigrazione per l’associazione Ospiti in Arrivo, Udine

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