L’impatto della violenza domestica sulla salute delle donne

Negli ultimi anni, i fatti di cronaca ci raccontano quasi quotidianamente di episodi di violenza sulle donne. Storie taciute, o troppo spesso inascoltate, di violenze quotidiane. Drammi che si consumano all’interno di quel luogo sicuro e protettivo che dovrebbe essere la propria casa o all’interno di relazioni di intimità e fiducia, lasciandoci increduli di fronte ai numeri delle vittime.

di Fabiana Nascimben

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Analizzando i dati forniti dal rapporto EURES, dal 2000 al 2010 le vittime di femmicidio sono state 2.061, dal 2010 al 2015 658. Nei primi sei mesi del 2016 i dati non sono univoci, ma i numeri parlano di 40-50 vittime. Significa un femmicidio ogni tre giorni, un numero superiore agli omicidi compiuti dalla mafia.

Ma ciò che pochi sanno è che, oltre alla perdita di vite umane, vi è un altro aspetto da mettere in conto, meno noto e dibattuto, ma sicuramente espressione delle reali dimensioni del fenomeno: l’enorme impatto sulla salute esercitato dalla violenza domestica sulle donne e sui minori che con loro la subiscono. Secondo l’OMS, a livello mondiale si stima che la violenza sia una causa di morte o di invalidità per le donne in età riproduttiva altrettanto grave del cancro e una causa di cattiva salute più importante degli effetti degli incidenti del traffico e della malaria combinati insieme (OMS 1997).

Già nel 2003 l’ONU definiva la violenza contro le donne come “qualunque atto di violenza di genere che produca o possa produrre danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, nella vita sia pubblica, sia privata”, ponendo l’accento sulla complessità del danno, che non si limita alle sole lesioni fisiche, ma che le travalica, andando a minare nel profondo la donna e il suo vivere. Per questo vengono utilizzati due termini distinti: femmicidio, l’uccisione di una donna da parte di un soggetto di sesso maschile per motivi di genere (uccisa in quanto donna) e femminicidio, una definizione più complessa e generale che non si ferma all’omicidio in sé, ma allarga lo sguardo a tutte le forme di discriminazione in grado di annullare la donna nella sua identità, non soltanto fisicamente, ma anche nella dimensione psicologica, nella socialità e nella partecipazione alla vita pubblica.

E’ in questo annullamento dell’essere donna nella sua interezza che si pongono le basi per quella sofferenza profonda che porta ad ammalarsi di più, configurando la violenza sulle donne come un fattore di rischio a se stante per lo sviluppo di una malattia, al pari di fumo, dislipidemia, ipertensione, ed obbligando i medici a rivedere alcune categorie nosologiche e a chiedere alle loro pazienti in merito ad un possibile vissuto di violenza (presente o passato) anche quando le donne si rivolgono a loro per cause non traumatiche.

Si stima che una percentuale compresa tra il 19 ed il 30% delle donne ferite sia stata visitata nei dipartimenti di emergenza, che il 14% sia stata visitata negli ambulatori specialistici e che le donne maltrattate raggiungano il 35% delle donne che richiedono assistenza nei pronto soccorsi per una qualsiasi ragione. Oramai è noto a tutti che i danni causati dalla violenza non si limitano all’effetto momentaneo, ma perdurano per anni anche dopo che la violenza è cessata e possono provocare alterazioni dell’umore (come ansia e depressione), ma anche disturbi gastrointestinali, respiratori, cardiovascolari, genitourinari, incapacità genitoriale e lavorativa e riduzione della partecipazione alla vita sociale attiva. Ed è un dato altrettanto appurato che le donne giungono più spesso a prendere coscienza del problema e a decidere di uscire dalla violenza quando a chiederglielo è un medico o un infermiere.

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L’entità del fenomeno è tale per cui, aggregando tutti i dati relativi ai costi monetari diretti (visite mediche, ricoveri in ospedale, uso di farmaci, attività di polizia, alloggi) ai costi non monetari (aumento degli stati patologici, aumento della mortalità dovuta a omicidi e suicidi, abuso di alcool e stupefacenti, stati depressivi) ai moltiplicatori economici e sociali, il fenomeno della violenza contro le donne costa allo Stato italiano circa 17 miliardi di euro all’anno, a fronte di una spesa di circa 6 milioni di euro per la prevenzione.

Per queste considerazioni, e per gli episodi di femmicidio avvenuti nella nostra Regione, all’interno dell’Azienda per i Servizi Sanitari n 5 Friuli Occidentale è attivo, dal 2014, un corso di formazione specifico denominato “I volti della violenza: strategie di riconoscimento e gestione per operatori sanitari”, finalizzato ad insegnare agli operatori a riconoscere le donne vittime di violenza che si presentano in ospedale o negli ambulatori del territorio, nella convinzione che tutti gli operatori sanitari, medici, infermieri o tecnici, godendo di un punto di vista privilegiato pur nelle loro specificità, possano svolgere un ruolo determinante nell’emersione del fenomeno. La violenza contro le donne non è una questione privata, ma un problema di salute pubblica che ci coinvolge in prima persona.

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L’obiettivo principale del corso è quello di portare all’attenzione degli operatori sanitari la complessità della violenza domestica, fornendo strumenti operativi per riconoscerla, gestirla ed attivare con adeguatezza le forze dell’ordine, i servizi sociali, i centri anti-violenza e qualsiasi altro soggetto possa fornire risposte competenti, nell’ottica della tutela della donna e dei minori che a lei si accompagnano. Ci proponiamo, inoltre, di far acquisire le competenze per relazionarsi e comunicare con la persona che ha subito violenza e accoglierla creando un rapporto di fiducia, base fondamentale per ogni professionista.

Sappiamo bene come la violenza domestica sia un fattore di rischio a se stante per lo sviluppo di una malattia e per l’acquisizione di comportamenti rischiosi (alcool, droghe, abuso di farmaci, gesti anticonservativi) e come le donne si rechino in pronto soccorso dichiarando spesso eventi accidentali o malesseri aspecifici prima di riferire di essere state vittime di soprusi e violenze (vi sono casi di decine di accessi prima dell’emersione del fenomeno). A volte, si rivolgono ad altri reparti o ad altri servizi nel tentativo di risolvere delle problematiche di salute che, in realtà, trovano la loro origine nella storia di violenza. Spesso, lo fanno più e più volte confidando che qualcuno, prima o poi, ponga una domanda tanto scomoda quanto fondamentale, che consenta loro di parlare ma, soprattutto, si essere ascoltate e credute.

Durante il corso viene, pertanto, insegnato che non esiste un indicatore univoco di violenza, ma che ve ne sono molti: la donna va guardata nella sua interezza, vanno valutati gli accessi precedenti per individuare eventuali episodi non dichiarati o nascosti, vanno poste domande dirette sulla possibilità che subisca o abbia subito violenza, senza paura di porre domande invasive dell’intimità personale o di rischiare fantomatiche denunce.

Da quando il corso è attivo, sempre più donne accedono al pronto soccorso dichiarando un malessere aspecifico o un traumatismo accidentale e ne escono con le indicazioni su come contattare il centro anti-violenza Voce Donna o su quali siano i percorsi di uscita dalla violenza, se non, addirittura, venendo accolte direttamente in casa protetta per la pericolosità della situazione.

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Noi riteniamo di avere più di un dovere: considerare la violenza sulle donne come un fattore di rischio per la salute e adottare tutte le strategie e tutti i comportamenti che consentano alle donne di riconoscere e, successivamente, uscire dalla prigione della violenza. Non dimentichiamo che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani, e che i maltrattamenti in famiglia sono un reato punito dal nostro ordinamento.

Corollario a questa formazione è la stretta collaborazione formatasi con le Forze dell’Ordine, il centro anti-violenza e i servizi sociali dei Comuni, fondamentale per poter creare quella sinergia di intenti che consenta alla donna di non essere lasciata sola in questo percorso difficile e, non ultimo, pericoloso.

Accanto a questo percorso formativo di genere, asse portante del corso di formazione, abbiamo previsto la valutazione delle forme di violenza verso altre categorie fragili, quali anziani, diversamente abili, emarginati. In un’ottica di lotta alle diverse forme di violenza, abbiamo quindi portato la nostra attenzione anche su altre forme di abuso con cui noi operatori sanitari veniamo in contatto e verso cui abbiamo dei doveri etici, deontologici, ed anche legali.

Dal 2014, in un totale di 12 edizioni abbiamo formato 318 operatori, di cui 46 medici, 172 infermieri, 26 tecnici ospedalieri, 7 ostetriche, 16 assistenti sociali, 8 psicologi e 25 appartenenti ad altre professioni senza obbligo di ECM. Il corso ha una programmazione continua accessibile anche ad operatori esterni all’azienda attraverso la piattaforma ECM regionale. Alla data di redazione del presente articolo è in programmazione un ulteriore corso, specificatamente legato ad aspetti tecnici e medico legali, organizzato in collaborazione con Forze di Polizia, Carabinieri e Procura, volto ad incrementare le competenze nella gestione della scena del crimine, della raccolta dei reperti in caso di violenza sessuale, ed anche ad implementare la conoscenza reciproca e la collaborazione tra i diversi soggetti della rete contro la violenza. Ma questa è già un’altra storia.

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Dottoressa Fabiana Nascimben

Dirigente Medico Dipartimento di Emergenza, Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso

AAS5 Friuli Occidentale, Pordenone

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