Le parole contano anche sui giornali

Chiara Appendino ha vinto le elezioni comunali di Torino sconfiggendo il sindaco uscente, Piero Fassino. Un vero e proprio scossone, forse il più imprevedibile della tornata elettorale. Eppure, il giorno successivo, un noto quotidiano nazionale ha titolato “La neomamma che ha sconfitto Fassino”. Come se sottolineare che la Appendino sia mamma da poco aggiunga qualcosa (o lo tolga) alla sua carriera politica. Può sembrare una qualifica banale, una precisazione innocua, ma le parole sono importanti ed assumono un ruolo concreto nel plasmare la forma di una determinata figura di donna, in questo caso ancora legata a pregiudizi e stereotipi vetusti.

Contro il titolo del quotidiano si è scagliata Michela Murgia: non solo denuncia il valore anacronistico del sottolineare caratteristiche private di una figura pubblica, ma rilancia: “Chiamiamola sindaca. Se ci suona male è perché in poche hanno ricoperto quella carica nelle città maggiori e ancora meno hanno voluto farsi chiamare correttamente”. Il medesimo assunto vale anche in altri ambiti, quali l’imprenditoria, l’avvocatura, i ministeri. Con il fine di superare le discriminazioni assume un ruolo significativo l’attività svolta dalla rete GiULiA, un folto gruppo di giornaliste attive quotidianamente nella promozione di un linguaggio corretto ed equilibrato quando si parla di donne e, di conseguenza, anche di violenza di genere.

É singolare osservare come l’utilizzo del maschile per indicare figure di potere sia una prerogativa della lingua italiana: l’inglese utilizza il “the”, il francese femminilizza, come il tedesco, lo spagnolo usa presidenta, arquitecta, doctora. Il processo di adattamento è ancora lungo e, spesso, è determinato anche dalle donne stesse, le quali preferiscono continuare a farsi chiamare come da tradizione. Non dobbiamo, pertanto, stupirci di un’architetta che si fa chiamare architetto o di una sindaca che fa riferimento a se stessa come sindaco. Il problema, come sottolineato dalla studiosa Cecilia Robustelli in un approfondimento per l’Enciclopedia Treccani, è che il linguaggio ha un ruolo fondamentale nella costruzione sociale, “perciò è necessario che sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile, né, tanto meno, continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi”.

La questione linguistica assume ulteriore rilievo quando oggetto di trattazione è un episodio di violenza di genere o di femminicidio. Al proposito, il collettivo dei giornalisti del Corriere della Sera fondatori del blog “La 27esima ora” ha proposto, qualche anno fa, un vademecum su come comportarsi in queste situazioni. In primo luogo, è fondamentale non narrare la donna come “soggetto debole”, destinato naturalmente a subire violenza e a soccombere all’uomo forte. Soffermarsi sulla fragilità della donna non fa che rigenerare il pregiudizio per cui le bimbe crescono dolci e fragili, mentre i bambini forti e aggressivi. In secondo luogo, l’impegno dovrebbe essere finalizzato ad evitare frasi fatte e la ripetizione modulata di espressioni come “raptus di gelosia”, “omicidio passionale”, “l’ha uccisa perché l’amava”. La ripetizione fissa di stilemi determina, tra le possibili conseguenze, quella di svuotare di significato la formula linguistica, indebolendo fortemente il messaggio. Un terzo elemento chiave per adattare il linguaggio ad una rappresentazione onesta e non discriminatoria della realtà è quello di evitare la retorica dell’emergenza: le donne che subiscono violenza non rappresentano una novità, non si tratta di un boom, non si parla di un fenomeno ondivago. É di centrale importanza utilizzare tutti gli strumenti cognitivi a nostra disposizione per raccogliere informazioni accurate sui fatti e basare su di esse i propri ragionamenti.

parole-parole-parole

 

Si tratta di una rivoluzione tanto lenta quanto necessaria per contrastare gli stereotipi, abbattere i muri e promuovere una visione non discriminatoria della donna. É una questione di giustizia per quelle centinaia di donne che subiscono violenza ed è una questione di dignità per l’intera comunità sociale, all’interno della quale il fenomeno trova spazio. Se non disponiamo dei termini corretti per definirlo, come possiamo renderci conto che esiste davvero?

Angela Caporale

Giornalista pubblicista dal 2015, ha vissuto (e studiato) a Udine, Padova, Bologna e Parigi. Collabora con @uxilia e Socialnews dall’autunno 2011, è caporedattrice della rivista dal 2014. Giornalista, social media manager, addetta stampa freelance, si occupa prevalentemente di sociale e diritti umani. È caporedattore della rivista SocialNews in formato sia cartaceo che online, e Social media manager. 

Tags:

Rispondi