L’amore non può essere criminale. Storia di Federica e del suo angelo di nome Andrea

Era un giorno di giugno, di questa estate 2016.

Luigi Alfarano aveva 50 anni, Federica De Luca 30. Avevano un appuntamento nello studio di un avvocato a Taranto per formalizzare la loro separazione. Un matrimonio al capolinea, dunque, quello tra i due protagonisti dell’ennesimo episodio di femminicidio. L’incontro non c’è stato. Luigi è andato a casa di Federica, la madre di suo figlio, la donna che ha sposato, a Taranto, e l’ha uccisa. Un ulteriore litigio tra i due. In casa c’era anche Andrea, 4 anni. Tutto si è consumato in un pezzo di vita che non vorremmo mai raccontare, ma che ha insanguinato una tastiera, e parole. Tutto è finito sui media. Luigi si è scagliato contro di lei e l’ha strangolata, uccisa. Poi è uscito con Andrea. Ha guidato tanto, con chissà che strani pensieri, o forse col nulla nella testa, fino a Palagiano, a circa venti chilometri da Taranto. E’ giunto in una casa di vacanza, ha sparato al piccolo nel garage e poi si è suicidato.

 

 

Si. Ha sparato ad Andrea. Dopo aver guidato tanto, quando la ragione avrebbe dovuto prevalere sul fatto, quando avrebbe dovuto realizzare la tragedia compiuta e salvare almeno lui, Andrea. Vittima innocente, figlio di una vittima anch’ella innocente. Non v’è colpa tra due che si separano, tra due che si devono parlare, che possa mai giustificare l’atto di togliere la vita ad un altro essere umano.

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Era giugno, di un’estate 2016 che stentava a partire. Lo racconto oggi, dopo più di un mese, questo fatto orribile, consumatosi in una città che tanto si occupa dell’argomento, il femminicidio.

A distanza di un mese, la famiglia, gli amici, chiunque conosceva Federica, suo figlio e suo marito, una famiglia come tante, insieme alla città che di questa storia non ne conosceva i contorni, tutti hanno voluto ricordare quanto sia inaccettabile, in mancanza di dialogo, in un’apparente normalità, la morte, quando a perdere la vita sono una madre e suo figlio per mano di chi avrebbe dovuto proteggerli.

Nella marcia silenziosa, in questo caso una fiaccolate che si snodava per le vie del centro cittadino, la madre, dimostrando una forza ed un coraggio senza pari, mostrava l’immagine di Federica, sua figlia, adagiata nella bara, col volto tumefatto, che parlava di una violenza inaudita, di lividi e di occhi gonfi.

La scelta, da tutti rispettata qui, non dev’essere stata cosa semplice per una madre. Federica era bella, giovane, sportiva, laureata. Ma era sua figlia e sarebbe stata bellissima lo stesso. Mostrarla nel suo splendore avrebbe restituito pace al suo cuore.

A sfilare, invece, c’era il suo volto, cambiato, nel profondo, a testimoniare quanto sola sia stata Federica nell’attimo in cui Luigi è entrato in casa, quando la sua rabbia mista a follia lo ha indotto a ridurla così, togliendole l’ultimo respiro.

Dov’era Andrea? Cosa avranno visto i suoi occhi, cosa avranno ascoltato le sue orecchie? Durante il tragitto, un bimbo di 4 anni cosa avrà mai potuto vivere di questa assurda giornata con il suo papà, un mostro, oggi, per tutti, ma per sua madre e per lui la mano assassina che li ha uccisi?

In un convegno organizzato a Taranto nel novembre del 2013, nel quale ho avuto occasione di incontrare e di confrontarmi con lei, Roberta Bruzzone, nota criminologa, ma, soprattutto, donna impegnata a diffondere la cultura del non accettare passivamente la violenza che abita negli amori malati, affrontammo insieme alla città questa tematica purtroppo attualissima nella giornata internazionale dell’eliminazione della violenza contro le donne. Le parole che di quell’incontro mi restano, oltre ad una bella amicizia con Roberta, sono quelle che mi ha sussurrato tra un intervento e l’altro, e che poi ha ripetuto con fermezza e determinazione alla folta platea che affollava l’ampia sala della sede universitaria di Scienze della Formazione di Taranto. Sono racchiuse in una sorta di consiglio: “è inutile tentare di cambiare il carattere del proprio uomo, meglio cambiare uomo”.

Forse, Roberta non ha detto testualmente queste parole, ma il senso del suo dire era questo, abbandonare l’idea di poter cambiare qualcuno che agisce in modo violento, nel vano tentativo di rendere vivibile un amore impossibile. Non si può accettare, in nome dell’amore, una chiara situazione di possesso e violenza. Uno schiaffo non è amore. Un calcio, un pugno, parole dure, minacce sono sintomi di una morte che avverrà. Morti annunciate che cambiano solo città e nomi.

La storia è sempre la stessa: violenza tra le pareti domestiche, silenzi che accrescono la paura, si cerca una via d’uscita, barcamenandosi tra il desiderio che tutto finisca e la voglia di proteggere le persone care coinvolte. Poi la storia prende quella brutta piega che porta al punto di non ritorno quando si accetta di dialogare con la bestia mettendosi a rischio, divenendo vittima facilitatrice del proprio destino. La bestia è sempre un uomo, restituendo, purtroppo, senso ad una parola che vorremmo non aver imparato mai… femminicidio.

E’ sempre una donna a morire, una donna sola nel momento in cui ha la bestia di fronte. E bestia è chi agisce accecato da un istinto che porta ad uccidere. Non c’è un termine diverso.

In qualunque situazione, si può, si deve parlare, “il sangue non deve arrivare alla testa, il cervello non deve diventare acqua, non si deve perdere il lume della ragione, non si può sentire che qualcuno abbia istigato un altro, provocandolo, fino a farsi uccidere…”

Queste parole sono schiaffi sulla faccia di chi queste donne le piange. Al mondo non v’è alcun diritto di un uomo sulla propria donna che riguardi la sua vita ed il diritto a mantenerla.

Così come anche dire “la mia donna” è, forse, qualcosa di sbagliato. L’amore unisce, non possiede. L’amore è libertà di scegliersi, ed è nella scelta di restare insieme, affrontando con la parola problemi ed ostacoli, che sta la differenza tra amare una donna e ritenerla un oggetto di proprietà da buttare, rompere, bruciare quando qualcosa va diversamente dal proprio disegno di vita.

L’amore non è mai criminale e non segue le regole stabilite di un patto. E’ una scelta continua nell’unica via che l’amore conosce. Darsi senza ricevere cercando per l’altro il bene più grande: la libertà.

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Marianeve Santoiemma con fotografie di Vincenzo Aiello

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