La riabilitazione dei terroristi che tornano a casa

Combattere l’estremismo sul suo stesso terreno. “Disintossicare” i terroristi dalla propaganda jihadista. Porre rimedio al lavaggio del cervello a cui erano sotto posti quotidianamente mentre combattevano o venivano addestrati. Una rilettura“pacifista” e moderata del Corano.

Marco Colombo

Cosa succede quando un combattente non ce la fa più, quando qualcosa gli si spezza dentro? Quando decide che quel compagno morto, quella donna che grida, quel bambino che piange sconsolato è quello di troppo? Che succede quando quel combattente vuole tornare a casa, vuole provare a vivere di nuovo? E che succede quando quel combattente fino al giorno prima indossava i panni crudeli dello Stato islamico, del Fronte al Nusra o di qualche altra formazione del terrore?

Marco_colombo2Il problema non riguarda solo l’Occidente. Molti Paesi arabi si sono dovuti confrontare con quei loro concittadini che, ad un certo punto, ritornavano a casa. Anche se non esistono cifre ufficiali, il problema potrebbe riguardare molte migliaia di persone già rientrate e molti altri che, invece, rimangono al fronte per paura degli esiti di un viaggio di ritorno privo di garanzie. Col rischio che i primi, se privi di assistenza psicologica e di un percorso di reinserimento sociale, ritornino a imbracciare le armi nei rispettivi Paesi, mentre i secondi potrebbero continuare ad alimentare la spirale di violenza fondamentalista. Nel gergo degli esperti, si parla di “prevenzione” e “deradicalizzazione”, ma esistono altri canali, più o meno formali, che preferiscono usare il termine arabo di rehab, riabilitazione. I progetti che riguardano questo tipo di attività partono spesso in sordina, senza clamori, né pubblicità, solo da poco tempo in coordinamento con altre esperienze simili e in un quadro legislativo confuso e non di rado ostile, di intralcio per chi lavora con soggetti che sono delle bombe pronte ad esplodere.

I primi ad intuire la necessità di interventi del genere furono i Sauditi. Già dal 2003 cominciarono a rivedere le loro politiche di sicurezza interna per sperimentare nuovi programmi basati sul recupero dei fondamentalisti che avevano compiuto atti violenti sul territorio del regno ed anche di semplici simpatizzanti che cominciavano ad avvicinarsi troppo a idee considerate pericolose. Questi primi sforzi puntavano soprattutto a combattere l’estremismo sul suo stesso terreno: periodicamente, nelle strutture speciali in cui erano reclusi i beneficiari del programma, venivano invitati a parlare figure religiose ed esperti di teologia. L’obiettivo era quello di “disintossicare” i terroristi dalla propaganda jihadista, cercando di porre rimedio al lavaggio del cervello a cui erano sottoposti quotidianamente mentre combattevano o venivano addestrati, attraverso una rilettura “pacifista” e moderata del Corano.

L’intraprendenza di Riyad non deve stupire, né essere scambiata per lungimiranza politica.
La Nazione, dominata da un patto d’acciaio pluridecennale fra la classe religiosa wahhabita (un movimento teologico particolarmente conservatore e rigido nell’interpretazione dei testi sacri dell’Islam) ed il regime saudita, durante gli anni ’80 e ‘90 era diventata il principale esportatore di quelli che oggi definiamo foreign fighters in occasione dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, cui si opponevano gruppi di guerriglieri – i cosiddetti mujaheddin – sovente finanziati dalla stessa Arabia Saudita. Nel 2003, con lo scoppio della Seconda Guerra del Golfo, Al Qaeda e numerosi altri jihadisti fecero ritorno in patria. Una parte di loro puntava ad intralciare i piani degli Statunitensi in Iraq. Altri, invece, volevano rovesciare la casa regnante, considerata una traditrice della causa islamica essendosi alleata coi “crociati occidentali”. Armati e addestrati, questi ultimi sconvolsero il Paese con violenti attentati contro le autorità saudite, rivelando, così, la profonda incoerenza della politica estera degli Al Saud. Per anni simili esperienze rimasero una prerogativa di Nazioni a maggioranza musulmana, come, per l’appunto, Arabia Saudita o Indonesia.

Col trascorrere degli anni, la minaccia del terrorismo è cresciuta in maniera preoccupante, fino a trasformarsi in quella inquietante nube nera chiamata ISIS che ha finito con l’inghiottire prima la dilaniata Siria e poi il fragile e traballante Iraq. Il numero dei foreign fighters è lievitato sensibilmente e, questa volta, a rispondere alle sirene dello Stato islamico sono stati molti più cittadini del ricco Occidente di quanto fosse mai successo in passato. Questi ragazzi si ritrovano improvvisamente catapultati dalla realtà del Primo mondo, nel quale le notizie della guerra arrivano ovattate e parziali tramite i mass media, o esaltate e manipolate dai reclutatori di neofondamentalisti, a quella delle violenze sui campi di battaglia, alle stragi, al rigido codice comportamentale del califfato.

Gli effetti di questo impatto sui combattenti stranieri sono solitamente di due tipi: un’ulteriore radicalizzazione che li allontana ancor di più dalla loro vita passata e li spinge ad affidarsi maggiormente al nuovo credo fondamentalista fino alle estreme conseguenze; un tragico risveglio, spesso causato proprio dalle violenze a cui si è costretti ad assistere, dalle bugie a cui si è sottoposti (molti foreign fighters vengono attirati in Siria con l’inganno: si promette loro che combatteranno il regime del tiranno Assad, un despota che opprime e massacra il suo popolo) e dalla durezza della vita al fronte. A questo risveglio, solitamente si accompagnano la rabbia per la scelta compiuta e la paura per le conseguenze di un’eventuale diserzione: dalla morte per mano degli ex commilitoni alla reclusione ritornati in patria.

Ma come fermare questo circolo vizioso? Come agire, contemporaneamente, per impedire ad un potenziale terrorista di unirsi alla jihad in Medio Oriente e, invece, permettere allo stesso – se pentito – di rientrare nello Stato da cui era partito? Fino ad oggi, purtroppo, le autorità mondiali si sono concentrate soprattutto sulla prima questione. Fra i Governi – occidentali e non – prevale la linea dura, l’inasprimento delle leggi verso tutti i tipi di soggetti – chi vorrebbe partire, chi l’ha già fatto o chi sta pensando di ritornare indietro – spesso a prescindere dalla causa per la quale si combatte. L’Inghilterra vorrebbe confiscare i passaporti dei sospetti e bloccare i rientri per almeno due anni, misure già valide in Germania e in Canada. In Australia, invece, chi combatte all’estero al servizio di gruppi armati rischia l’ergastolo. In Tunisia è addirittura vietato il rientro per chi si macchia di crimini legati al terrorismo. Sono politiche inevitabili (chi ha commesso un crimine deve essere punito) ma che, spesso, fungono da deterrente per un “aspirante pentito”. Va comunque tenuto conto che esistono anche situazioni del tutto diverse: in Algeria i legislatori stanno ragionando sulla possibilità di concedere l’immunità a chi ritorna sui suoi passi in breve tempo, ritenendola un incentivo al pentimento, mentre in Danimarca è reato andare a combattere all’estero, ma solo se si è inquadrati in formazioni terroristiche. Anche riuscendo nell’intento di catturare e punire, la galera potrebbe rivelarsi il peggiore investimento che uno Stato possa fare coi soldi dei suoi contribuenti. Ad esempio, è stato dimostrato, in più occasioni, che i terroristi incarcerati a Guantanamo e, in seguito, scontata la loro pena, rilasciati, presentano i tassi di recidiva più elevati. La galera, la lontananza dal resto della società, il ricorrere esclusivamente ad interventi repressivi (che possono anche sfociare in casi qualificabili come tortura) conducono sovente ad un’ulteriore radicalizzazione delle persone, soprattutto nei casi in cui la propaganda fondamentalista abbia in precedenza lavorato a fondo sul soggetto, mutando completamente il suo sistema di valori o rispondendo ad un malessere interiore pregresso (incapacità di dare un senso alla propria esistenza, sentimenti di frustrazione per l’incapacità percepita di reagire allo status quo nel quale si vive, fino a situazioni di vera e propria depressione).

Che fare, quindi, con chi sta per partire trascinato da tanti esempi attorno a lui? Che fare per chi, invece, vorrebbe rientrare in patria? Magari dissociandosi dalle organizzazioni terroristiche, magari, addirittura, collaborando attivamente con le autorità giudiziarie per smantellare le reti esistenti ed impedire ad altri ragazzi di compiere gli stessi errori? Come abbiamo detto, oggi esistono programmi che facilitano il reinserimento e la de-radicalizzazione. Per quanto riguarda l’emisfero occidentale, però, non di rado si tratta ancora di progetti che procedono per tentativi, utilizzando le stesse tecniche impiegate per il recupero di tossicodipendenti e molestatori, e che non sempre ottengono approvazione e sostegno dai Governi o dall’opinione pubblica. Comunque, per quanto riguarda il tipo di cappello sotto cui si organizzano le attività di riabilitazione, per il momento sono state seguite due strade: quella “formale”, con programmi di recupero ideati e finanziati dalle autorità statali, e quella “informale”, nella quale singoli privati (esperti, genitori, psicologi) si mettono in contatto per offrire il proprio aiuto, condividere le proprie esperienze ed affrontare un problema che ritengono sia ingiustamente ignorato dalla politica.Marco_colombo

Nel primo caso troviamo l’Inghilterra. Il Governo finanzia e controlla queste attività anche tramite i cosiddetti mentor (o tutor), una delle figure più importanti nei programmi di prevenzione e de-radicalizzazione, impegnati su questo fronte anche in altri Paesi. Si tratta di specialisti provenienti da campi diversi, ma tutti ben equipaggiati per sostenere discussioni su Islam e religione proprio per introdurre punti di vista diversi da quelli inculcati dalla propaganda dell’ISIS ed incrinare la corazza costruita dai fondamentalisti attorno ai loro discepoli. Le loro armi fondamentali sono una ferrea conoscenza di tutti i fenomeni politici, religiosi, sociali e culturali, buone dosi di caffè e di pazienza, un telefono ed un’ottima predisposizione all’ascolto. È importante entrare in confidenza con i ragazzi ritornati dalla Siria o dall’Iraq, seguirli per un lungo periodo, mentre sono ancora profondamente convinti della giustezza delle loro scelte, ma anche dopo che hanno abbandonato la strada della violenza. Bisogna riconnetterli col resto del mondo senza farli crollare privandoli di qualsiasi certezza.
Per questo motivo, viene chiarito loro fin da subito che non li si vuole convertire, né si sta cercando di offendere il loro sentimento religioso. Tra i mentor si contano, quindi, diversi Musulmani. Altri Paesi, invece, seguono i reduci tramite percorsi partiti a livello locale, dalle necessità di Comuni grandi e piccoli, come Amsterdam in Olanda o Aarhus in Danimarca. Città con sistemi di welfare molto avanzati, nelle quali è difficile che qualcuno sia lasciato indietro dalla società o dalle amministrazioni comunali, ma che hanno comunque visto partire diversi foreign fighters. In questi casi, politici e polizia hanno agito assieme per intercettare chi è in procinto di partire e chi, invece, rientra dopo aver appreso come si uccide. I ragazzi vengono presi in carico da psicologi e medici, poi viene loro affidato un mentor e cominciano gli incontri. Si parla, si leggono articoli di giornale, si va al cinema, si creano curriculum vitae e si cerca un lavoro. Al contempo, si agisce sui e coi concittadini degli ex terroristi (o degli aspiranti tali).

Una delle difficoltà principali dei programmi di riabilitazione riguarda il cambiamento di mentalità richiesto sia agli ex terroristi, sia ai loro concittadini. I primi devono riuscire a superare il lavaggio del cervello operato su di loro dagli estremisti religiosi e a ricostruirsi una vita nella società che avevano abbandonato per un contesto fatto di violenze e atrocità; i secondi devono riuscire a superare stereotipi e pregiudizi, ma anche ad imparare quali siano i primi segnali di radicalizzazione in un ragazzo, forse, addirittura, in un figlio o in un fratello.
Si organizzano incontri pubblici con le associazioni, nelle scuole e nei consigli di quartiere. In essi gli esperti danno informazioni e creano una rete di contatti che possa permeare il tessuto sociale e permetta di salvare qualche ragazzo. Questo anche per evitare che si creino inutili allarmismi, ma anche perché chi si trova più a contatto con un giovane intenzionato a partire per la jihad – insegnanti, genitori, assistenti sociali – sappia di non essere solo e impari come comportarsi coi propri figli, come comunicare con loro. La cittadina danese ha fatto talmente tanta scuola che oggi si parla esplicitamente di “modello Aarhus” per quanto riguarda le tecniche di de-radicalizzazione degli ex combattenti. Le autorità si sono spinte fino nelle periferie degradate della città, nel quartiere di Gellerup, per cercare la collaborazione della locale moschea salafita (improntata, cioè, su una corrente religiosa di pensiero del mondo islamico particolarmente rigida). Abbandoniamo per un momento la sfera prettamente europea per tornare ad osservare il modello saudita. Rispetto ai primi anni 2000, molti aspetti sono cambiati: il primissimo Rehab Center, come sono oggi definiti i luoghi nei quali si tenta di recuperare alla società i terroristi, si è esteso e moltiplicato per cinque. Cinque strutture in grado di ospitare ciascuna dai 230 ai 250 “beneficiari”, come vengono denominati qui coloro i quali vi si trovano, anche se sarebbe più corretto definirli “prigionieri”. I muri che li circondano restano muri, così come il filo spinato che li sovrasta (e, in ogni caso, questo percorso è successivo ad un periodo trascorso in una vera prigione). Al contrario del sistema europeo, Riad non ha puntato molto sulla prevenzione (anche se alcuni predicatori sono stati cacciati dalle loro moschee perché tenevano sermoni nei quali incitavano alla guerra), preferendo concentrare i suoi sforzi sul care and counseling nei confronti di chi è già stato in Iraq e in Siria.
Questi centri sono perfettamente attrezzati e offrono ai già citati beneficiari la possibilità di scegliere fra piscine all’aperto, campi da calcio, palestre con sauna e bagno turco, dormitori, ampi saloni, aule studio e altri luoghi di ritrovo. Ovviamente ci sono moschee nelle quali pregare – anche se lontano dall’area più centrale delle strutture – e programmi di teologia per chi desiderasse approfondire temi legati al proprio credo. Al termine del trattamento gli assistiti vengono aiutati a cercare un lavoro o ad aprire un’attività commerciale, a tornare a vivere con le loro famiglie e, se lo necessitano, possono anche richiedere un sostegno psicologico.

Si calcola che, dal 2008, siano transitate dai Rehab Center sauditi almeno 3.000 persone. L’esempio più noto di sistemi di riabilitazione informali giunge, invece, dal Canada. Dalla tragica esperienza di Damian Clairmont (un giovane di 22 anni proveniente da Calgary morto in combattimento in Siria dopo aver aderito all’ISIS), è sorto un network a cui sua madre, Christianne Boudreau, ha dato un impulso fondamentale. Come molti altri Governi, neanche quello canadese ha saputo offrire a Christianne alcun consiglio mentre suo figlio era ancora in vita. Per questo motivo è nato Mothers for Life, una rete internazionale di genitori, una rete a cui madri e padri si aggrappano per restituire i loro figli alla normalità, prima di partire, mentre sono già in guerra e quando sono tornati indietro. Nella cultura musulmana la figura materna assume un’importanza centrale. È ad essa che i figli dovrebbero chiedere il permesso di partire per la jihad ed è a questo vitale nesso di congiunzione (tra genitore e figlio e tra genitore, figlio e Islam) con i valori che i loro figli dicono di star difendendo che il progetto si è aggrappato nel lanciare un messaggio a tutti quei foreign fighters scappati di casa, una lettera in cui condannano il gesto dei ragazzi e gridano forte il loro dolore e la loro rabbia: “Non vogliamo che partiate. Vogliamo che torniate. Vogliamo che viviate. Anche se voi pensate che la morte possa regalarvi una vita migliore, ricordate che il Profeta ha detto: “Il Paradiso sta ai piedi delle vostre madri”.
Esistono, poi, anche quelli che potremmo definire “sistemi misti”, nei quali istituzioni e privati collaborano. È il caso della Germania. Qui opera il programma di supporto Hayat (che collabora anche con Mothers for Life) per aiutare i familiari di chi vorrebbe o già fa parte di un gruppo terrorista, o dell’Inghilterra, con la Quilliam Foundation – un’associazione che vuole sfidare sia la narrazione fondamentalista e i suoi effetti sui Musulmani, sia proporre ai non Musulmani una visione dell’Islam pacifica e capace di coesistere con un contesto democratico e rispettoso dei diritti umani.

E in Italia? Nel nostro Paese, nonostante la martellante propaganda politica, la presenza di numerosi obiettivi sensibili (il Vaticano e il patrimonio ecclesiastico più in generale, un Governo che ha sostenuto attivamente tutte le “missioni di pace” a guida statunitense) e l’esperienza di alcuni jihadisti italiani (come Ibrahim Delnevo o Giampiero F.), non sono ancora stati attivati programmi di prevenzione e de-radicalizzazione.
Eppure, anche in questi casi, il fine ultimo della prigione dovrebbe essere il reintegro del criminale nella società (a cui – in teoria – il sistema giudiziario italiano si ispira) grazie anche alla rimozione dei fattori che hanno scatenato in lui un’azione deviante.
Ma questi programmi sono realmente efficaci? La rehab rappresenta una strada effettivamente percorribile allo scopo di redimere chi si è già compromesso e per impedire che giovani confusi e influenzabili diventino dei boia o delle “spose della jihad”? Le percentuali parlano dell’80-90% di successo tra le migliaia di casi trattati.
Certo, in questa materia, affidarsi a cifre e percentuali può sembrare un’assurdità. Anche un solo caso di fallimento significa rimettere in libertà un soggetto potenzialmente pericolosissimo che, per quanto sia stato recluso per molto tempo con tutte le limitazioni che questa condizione implica, possiede esperienze, motivazione e contatti da sfruttare e riattivare per entrare nuovamente in azione.
D’altra parte, ad oggi, nel loro ambito, i programmi di rehab potrebbero rappresentare la scelta più efficace per combattere la propaganda dell’ISIS. Un piccolo contributo, una goccia nell’oceano della guerra al terrore, laddove, però, conferenze internazionali e bombardamenti hanno finora fallito.

Marco Colombo, ricercatore indipendente e contributor per diverse testate, tra le quali The Bottom Up

 

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