Dalla Champions League con l’Udinese al rugby in carrozzina

Lo sport è competizione, divertimento, fatica, gratificazione, fatto da 22 ragazzi in calzoncini al Camp Nou o praticato da 10 ragazzi tetraplegici con una palla ovale al palazzetto di Sacile

Paolo Magrin

Paolo MagrinQuando si parla di sport e disabilità si rischia di commettere un errore: trattare di sport da una parte e dei problemi dei disabili dall’altra. Dopo molti anni di reparti, ambulatori, visite, storie, campi da gioco, viaggi, successi e sconfitte cocenti, ho imparato che, per affrontare il tema sport e disabilità, bisogna, innanzitutto, parlare di sport. Sono un medico e, per molti anni, dopo la laurea e la specializzazione, ho lavorato come “medico dello sport”, prendendomi cura dei muscoli strappati dei calciatori amatoriali o delle caviglie dei podisti della domenica, delle ginocchia sbucciate dei bambini che tirano i primi calci e delle schiene degli anziani che fanno la ginnastica antalgica… fino alla grande occasione: per una serie di circostanze incredibili, e, forse, anche un po’ per merito, sono diventato responsabile sanitario dell’Udinese Calcio nell’era Spalletti.
Il secondo anno siamo arrivati quarti in campionato, conquistando, per la prima volta nella storia centenaria della società, la qualificazione alla Champions League. L’anno successivo (Spalletti, nel frattempo, era andato a Roma) abbiamo giocato a Lisbona, Brema (Klose ne fece 3), Barcellona (qui fu Ronaldinho a farne 3), Atene.
Abbiamo vissuto (uso il plurale perché ho fatto parte di un gruppo straordinario, una famiglia allargata) delle emozioni uniche, irripetibili. Abbiamo condiviso sorrisi, urla, paura, stanchezza, lavoro, alberghi sempre diversi e sempre uguali, centinaia di check-in negli aeroporti, manti erbosi a tutte le latitudini, ascoltato cori, invocazioni, insulti.
Ho imparato com’è organizzata una società professionistica, la politica del lavoro, dell’impegno, la condivisione di un progetto.
Ho scoperto un modo nuovo di svolgere il mio mestiere, ho imparato a chiedere, mi sono confrontato, ho capito che si può sognare in grande e che il sogno si può realizzare e ho sentito il silenzio assordante dopo le sconfitte.
Poi ho vissuto altre esperienze ad alto livello (una società di serie C in Italia ed il CSKA Sofia in Bulgaria). Successivamente, ho vinto un concorso come fisiatra e ho cominciato a lavorare all’Ospedale Gervasutta di Udine. È stato un nuovo inizio, drammatico e affascinante allo stesso tempo. Ho approcciato un nuovo mondo, quello della disabilità “brutta”, grave, cronica, quella che lascia poco e si prende quasi tutto, la disabilità che cambia la vita e sposta gli equilibri. Un istituto come il nostro si occupa di disabilità gravi a 360 gradi: accoglimento del paziente, valutazione delle problematiche cliniche e riabilitative, reinserimento sociale e lavorativo e avviamento allo sport. Il confronto tra questi due mondi così diversi mi ha permesso di capire che ogni persona (abile o disabile) che pratica sport si pone degli obiettivi: passare la palla al compagno, compiere l’ultima bracciata, centrare il bersaglio, fare canestro, mettere a segno una stoccata, vincere, raggiungere una prestazione, arrivare al traguardo… Non ha importanza avere una carrozzina sotto il culo o una protesi al braccio. Non te ne accorgi, non è importante. Una volta ho chiesto ad un amico paraplegico e giocatore di basket quali fossero i momenti della vita nei quali si sentiva meno disabile e mi ha risposto: “Quando la palla si insacca a canestro senza toccare nemmeno il ferro…‘ciuff’”.

Dobbiamo sempre ricordare che il disabile che pratica sport è un vero atleta. Deve superare problemi enormi, non solo dal punto di vista motorio. Senza scendere in problematiche cliniche troppo complesse, porto un esempio: in un atleta con lesione midollare che pratica attività fisica intensa, durante lo sforzo la temperatura corporea può raggiungere i 38°C. Ciò è dovuto ai problemi di termoregolazione conseguenti alla mielolesione (assenza di sudorazione sotto il livello lesionale). Lo sport è competizione, agonismo, divertimento, fatica, gratificazione, fatto da 22 ragazzi in calzoncini al Camp Nou di Barcellona con 100.000 persone sugli spalti o praticato da 10 ragazzi tetraplegici con una palla ovale al palazzetto di Sacile (PN). Ci sono differenze sostanziali nel budget a disposizione, nell’organizzazione del lavoro, nella presenza di tecnici qualificati e di strutture adeguate, ma l’obiettivo è sempre lo stesso: giocare. Ritengo che ci sia ancora molto da fare nel mondo dello sport per i diversamente abili, ma credo anche che gli ultimi 15 anni abbiano tracciato una strada che va seguita. Ci vuole coraggio da parte degli atleti e di tutti quelli che li aiutano ad essere tali. Bisogna promuovere le attività motorie a tutti i livelli e migliorare la parte organizzativa. Servono soldi (ovviamente) e strutture, ma, soprattutto, serve voglia di faticare, allenarsi, divertirsi… fare sport.

 

Paolo Magrin,medico chirurgo, specialista in Medicina dello Sport. Dirigente Medico presso l’Unità Spinale dell’Istituto di Medicina Fisica e Riabilitazione di Udine

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